Alternanza Scuola Lavoro: guardiamo ai modelli che favoriscono l’occupazione giovanile

Dalla presentazione in Parlamento della legge di bilancio, tra le tante cose, abbiamo stigmatizzato anche la norma che dimezza le risorse dedicate all’alternanza scuola-lavoro, riduce drasticamente le ore e riporta le lancette molto indietro nel tempo.

A conferma che le ragioni della narrazione prevalgono su quelle della realtà, si è voluto intervenire cancellando la parola «lavoro» dalla denominazione della nuova alternanza, sostituita dal termine «orientamento». È stata così completamente superata, non solo snaturata, l’idea di co-progettare con le imprese percorsi in grado di garantire delle esperienze formative connesse con il mercato del lavoro.

Consapevolmente ed altrettanto irresponsabilmente se si considerano gli alti tassi di disoccupazione giovanile nel nostro periodo, aggravati dal paradosso del mismatch formativo, si ritorna ad una visione che separa il tempo della formazione da quello del lavoro, in una prospettiva rigorosamente cronologica: prima si studia e solo dopo, alla fine dell’iter formativo, ci si propone sul mercato del lavoro, ancora sprovvisti di quelle c.d. “soft skills”, di quelle competenze relazionali, di lavoro in gruppo, di capacità di adattarsi e di risolvere i problemi che solo l’esperienza del lavoro può dare e che le imprese cercano nei giovani.

Il Ministro Bussetti nel corso del Question Time ha cercato di giustificare il “cambio della semantica” con la necessità di far passare il messaggio per cui i percorsi di alternanza non sono alternativi alla didattica, ma debbano integrarsi con essa.

Quella del Ministro sembra più una excusatio non petita rispetto all’effettiva scelta che è dietro il cambio del nome, che è quella di eliminare la parola lavoro dalla loro configurazione mettendo in luce anche una concezione di didattica antica, fatta solo sui banchi di scuola. Mentre il senso stesso di alternare l’esperienza formativa con quella del lavoro, con anche la possibilità di applicare praticamente quanto appreso a livello teorico a scuola, è quello di offrire agli studenti un’opportunità in più di costruirsi un sapere che non è solo astratto, in attesa di metterlo in pratica solo una volta terminato il ciclo di studi, tra i più lunghi in Europa.

Preoccupati da questa visione oscurantista che conferma un certo atteggiamento pregiudizievole nei confronti delle imprese, abbiamo condotto la nostra battaglia in Parlamento con emendamenti volti a preservare l’attuale monte orario, pari a 400 ore nel triennio negli istituti tecnici e professionali e 200 nei licei, le attuali risorse e a mantenerne l’obbligatorietà. Abbiamo anche tentato di prorogare l’entrata in vigore di questa nuova disciplina al prossimo anno, posticipando così anche il taglio delle risorse.  

Con lo stesso approccio ostile al confronto che ha caratterizzato l’intera discussione sulla legge di bilancio, non siamo stati ascoltati.

Siamo però riusciti ad ottenere almeno un aumento di 30 ore per i percorsi da svolgere negli istituti professionali, portandole dalle originarie 180 a 210 ore, avvicinandosi almeno alla metà delle ore che gli studenti hanno potuto svolgere da quando l’alternanza scuola lavoro è stata introdotta in maniera obbligatoria. Contestualmente, abbiamo evitato il taglio delle risorse per questi percorsi. Siamo riusciti almeno ad ottenere che l’istruzione professionale potesse mantenere la sua peculiarità di essere un percorso che deve realizzarsi a stretto contatto con le imprese e il mondo del lavoro.

Abbiamo sempre disapprovato la logica del mero adempimento che in qualche caso ha condotto le scuole a proporre agli studenti dei percorsi non coerenti con il loro percorso formativo. Però, con l’intervento del Governo si rischia di vanificare anche i pochi passi avanti fatti e soprattutto di non valorizzare le esperienze virtuose che pure ci sono state nel territorio. Certamente l’obiettivo non poteva che essere quello della qualità dei percorsi e già nella passata legislatura abbiamo più volte auspicato un monitoraggio qualitativo oltre che quantitativo. Le istituzioni scolastiche avrebbero dovuto essere supportate nella costruzione di un effettivo partenariato con il tessuto produttivo per una co – progettazione dei percorsi formativi. Invece, si è preferito ancora una volta seguire la più breve strada della propaganda, stravolgendo questi percorsi, invece di provare a fare un investimento concreto sui nostri studenti.

Altri Paesi europei, hanno un tasso di disoccupazione giovanile pari quasi alla metà di quello del nostro Paese, puntando su un sistema duale di integrazione tra la formazione e il lavoro, centrato sull’apprendistato come modalità di ingresso nel mondo del lavoro dei più giovani.  A quei modelli, si deve continuare a guardare se si vuole favorire l’occupazione dei giovani, senza paura della sola parola “lavoro”.