
La scuola tra passato, presente e futuro

Il Prof. Italo Fiorin, nell’intervista dal titolo “Nuove Indicazioni Primo Ciclo con la Bozza del giugno 2025: cambia la forma ma non la sostanza” del 27/06/2025, ci ricorda che Don Milani diceva: “La scuola siede tra il passato e il futuro, deve averli presenti entrambi e l’educazione consiste nell’arte difficile e delicata di condurre i ragazzi come su un filo del rasoio”. La prima parte della frase, “La scuola siede tra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi”, racchiude in sé l’essenza della missione educativa. Il passato non è inteso come un peso, ma come un patrimonio fondamentale. Significa conoscere la storia, la cultura, le tradizioni e gli errori che ci hanno preceduto. L’insegnamento delle materie umanistiche, scientifiche e artistiche rappresenta la trasmissione di questo sapere accumulato, che costituisce le radici da cui una persona può sviluppare la propria coscienza critica. Ignorare il passato significherebbe condannare i ragazzi a ripeterne gli errori, privandoli degli strumenti per comprendere il mondo che li circonda. Don Milani, con la sua attenzione al contesto sociale e alla lingua dei poveri, intendeva dare a questi ragazzi gli strumenti linguistici e culturali per comprendere la loro realtà e le ingiustizie che subivano, strumenti che erano stati loro negati. Allo stesso tempo, la scuola deve guardare al futuro. Non si tratta solo di preparare i ragazzi al mondo del lavoro, ma di formarli come cittadini consapevoli, capaci di affrontare le sfide di un mondo in continua evoluzione. Significa sviluppare il pensiero critico, la capacità di risolvere problemi, la flessibilità mentale e l’empatia. Il futuro è un orizzonte di possibilità, ma anche di incognite e la scuola ha il compito di dotare gli studenti degli strumenti necessari per navigare in questo orizzonte, non solo per adattarsi, ma per contribuire a plasmarlo. L’equilibrio tra questi due poli è ciò che rende la scuola un luogo di crescita autentica. Un’educazione che si concentra solo sul passato rischia di diventare sterile, museale, incapace di dialogare con le nuove generazioni. Una che guarda solo al futuro, invece, rischia di essere priva di radici, effimera, superficiale. Don Milani, nella scuola di Barbiana, ha dimostrato concretamente come questo equilibrio possa realizzarsi, insegnando ai suoi ragazzi a leggere la storia e le dinamiche sociali per interpretare il loro presente e immaginare un futuro diverso, più giusto. La seconda parte della citazione, “l’educazione consiste nell’arte difficile e delicata di condurre i ragazzi come su un filo del rasoio”, è una metafora di straordinaria potenza. Il filo del rasoio evoca l’immagine di un percorso estremamente sottile e rischioso, dove ogni passo falso può avere conseguenze gravi. Questo percorso, come spiega Don Lorenzo Milani in un’altra sua riflessione, è quello che si snoda tra due estremi: da un lato, la necessità di formare il senso della legalità e il rispetto per le Istituzioni, dall’altro, la capacità di sviluppare il senso politico e la volontà di lottare per leggi migliori e più giuste. Coniugare questi due aspetti è l’arte più difficile e delicata dell’educazione. Se si insegna solo la legalità, si rischia di formare cittadini passivi, conformisti, che accettano lo status quo anche quando è palesemente ingiusto. Se si enfatizza solo il senso politico, si rischia di incoraggiare l’anarchia e la ribellione fine a se stessa. Il compito dell’educatore è, quindi, quello di accompagnare gli studenti in questo percorso, aiutandoli a comprendere quando è il momento di rispettare una legge e quando, invece è necessario disobbedire in nome di un’ingiustizia più grande, come lui stesso fece con la sua celebre “Lettera ai giudici” in cui difendeva la sua scelta di insegnare ai ragazzi a non accettare passivamente le ingiustizie. La visione di Don Milani è una vera e propria sfida per la scuola di oggi. E’ un monito a non accontentarsi di un’educazione superficiale, fatta di nozioni sterili e preparazione tecnica. L’educazione, per Milani, è un atto profondamente morale e politico. È l’arte di preparare cittadini liberi, responsabili e consapevoli. Significa dare a tutti gli strumenti per “padroneggiare la parola” e non solo per “subirla”, per poter diventare “sovrani” del proprio destino. Come possiamo, noi educatori, condurre i ragazzi su questo filo del rasoio? Come possiamo trasmettere il valore del rispetto delle regole e, al contempo, il coraggio di lottare per un mondo migliore? Leggendo la seconda bozza delle Nuove Indicazioni Nazionali (11 giugno 2025), si ha l’impressione che quel filo sia diventato una passerella di sfilata. Bella da vedere, certo, ma lontana dalla fatica di camminarci sopra.
Il bambino che non esiste e la scuola che non c’è
La bozza tratteggia il profilo di un “bambino ideale” che, onestamente, fatichiamo a riconoscere nelle nostre aule. Un bambino che “interagisce attivamente e in maniera rispettosa e inclusiva con i compagni”, che “gestisce le proprie emozioni” e che reagisce “attivamente” alle difficoltà. Un piccolo supereroe della socialità e della resilienza. Ma dov’è, in questo quadro, il bambino che lotta con un DSA non diagnosticato, quello che porta in classe il peso di una famiglia fragile, l’alunno che non parla ancora l’italiano o quello che fatica a stare seduto cinque minuti? La “scuola militante”, che si batte ogni giorno nelle trincee dell’educazione, sa bene che la realtà è fatta di conflitti, fatica, disuguaglianze e silenzi. Il “filo del rasoio” di Milani era un percorso per chi partiva da zero, per chi non aveva voce. Queste Indicazioni, invece, sembrano scritte per chi quel filo lo attraversa già a piedi nudi e con un equilibrio perfetto. Manca una visione d’insieme, un progetto che tenga conto della complessità umana e sociale.
Una marcia indietro di cinquant’anni
E qui sta il punto più dolente. Sembra quasi che gli autori abbiano deciso di resettare cinquant’anni di ricerca e di sperimentazioni. E non è un’iperbole. Gli studi di Bruner, Ausubel, Goleman, Gardner, Bauman, Morin, Canevaro, e le scoperte delle neuroscienze ci hanno insegnato che l’apprendimento è un processo attivo, una costruzione di senso che si basa sull’esperienza e sull’emozione, non sulla trasmissione di pacchetti di conoscenza. Ma in questa bozza si torna a un modello che “sa d’antico” in cui i contenuti sono aumentati e vengono esposti in un’ottica di pura e semplice elencazione. Si parla di “conoscere le basi dell’anatomia”, di “comprendere le regole”, come se la mente fosse un magazzino da riempire. Si ignora che il cervello apprende creando connessioni, non accumulando dati. L’educazione, in quest’ottica, non è più l’arte di condurre, ma la procedura di riversare informazioni. Milani, pur senza neuroscienze, aveva compreso questa verità istintivamente. La sua pedagogia era un laboratorio in cui il sapere si costruiva insieme, partendo dalla vita reale dei ragazzi. Era una scuola che metteva in discussione le metodologie inefficaci, perché l’obiettivo era l’emancipazione, non il nozionismo.
Un equilibrio tradito
Insomma, il documento ci offre un’illusione. Ci parla di competenze, ma le svuota della loro forza trasformativa. Il “fair play” diventa un’etichetta di buon comportamento, senza il coraggio di insegnare a lottare per la giustizia. E il corpo, pur menzionato, è ridotto a un insieme di movimenti da eseguire, perdendo il suo ruolo di motore cognitivo. In definitiva, la bozza non riesce a sedere in equilibrio tra passato e futuro. Sceglie di aggrapparsi a un’idea di scuola che la ricerca ha già superato e che la realtà delle aule smentisce ogni giorno. Quel “filo del rasoio” è stato spezzato da un eccesso di peso e da una pericolosa miopia. La scuola che emerge è più vicina a un’utopia burocratica che alla scuola militante, coraggiosa e concreta, che Don Lorenzo Milani ha incarnato.
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