
I referendum, la politica e la scuola
A ridosso della consultazione referendaria, in occasione della conferenza sugli esiti della sperimentazione del merito applicata a docenti e scuole (8 giugno), il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha comunicato la sua intenzione di non recarsi alle urne, così come hanno fatto più o meno nelle stesse ore il presidente Berlusconi e il leader della Lega Umberto Bossi.
In questo modo è risultato ancora più chiaro che la partita dei referendum viene vissuta dalle forze politiche della maggioranza e dell’opposizione (con eccezioni sul merito e sul metodo in entrambi gli schieramenti) come una verifica, una sorta di secondo tempo rispetto all’esito dei ballottaggi, che hanno segnato un netto successo dell’opposizione: alla ricerca di una rivincita da parte della maggioranza, e del colpo del ko da parte dell’opposizione.
La scelta di ‘politicizzare’ l’astensione da parte della maggioranza è tuttavia per essa ad alto rischio: a questo punto se il quorum fosse raggiunto, malgrado l’invito dei suoi maggiori esponenti a disertare le urne, si dimostrerebbe che la maggioranza è in realtà diventata minoranza. E non di poco, perché la quota degli astenuti ‘fisiologici’ (quelli che si sarebbero astenuti comunque) non può essere confusa con quella di coloro che si sono astenuti aderendo all’invito della maggioranza a farlo.
Le conseguenze per il governo sarebbero pesanti, e aumenterebbe la probabilità di elezioni anticipate a breve termine, tanto breve da impedire a Mariastella Gelmini di utilizzare gli ultimi due anni della legislatura per realizzare – o cercare di farlo – la pars construens della sua azione di governo: i decreti attuativi della riforma universitaria e la valorizzazione della professione docente.
Per poter dire di aver vinto la partita-rivincita dei referendum, comunque, la maggioranza avrebbe bisogno di una percentuale di astenuti assai elevata, ben sopra il 50%.
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