Come uscire dall’impasse? Più scuola al sud

L’unica via percorribile, considerata la persistenza al Sud di fenomeni come la dispersione e gli scadenti risultati nei test Invalsi e Pisa, ci sembra quella che Tuttoscuola ha suggerito ormai da tempo (almeno dal dossier ‘Sei idee per rilanciare la scuola’ del settembre 2013), e che il governo Renzi sembrava sia pur timidamente orientato a imboccare: tenere aperte le scuole (non solo d’estate o occasionalmente, ma con una riorganizzazione strutturale dei servizi che le metta al centro della vita della comunità), più scuola dell’infanzia, incentivare il tempo pieno nel Sud, intervenire con piani integrati straordinari nelle aree a rischio. Tutto ciò potrebbe portare nel giro di qualche anno alla redistribuzione di buona parte di quei posti assegnati ‘fuori sede’.

Nessuna forma di assistenzialismo, ma investimenti in maggiori servizi, da valutare scrupolosamente e con il pieno coinvolgimento degli interessati in modo da misurarne il tasso di ritorno.

Le forme di incentivazione e sussidio a favore del Sud dovrebbero essere tradotte in termini di maggiori opportunità di istruzione: meno “Sacco del Nord”, per rifarsi all’illuminante studio di Luca Ricolfi di qualche anno fa, attraverso assistenzialismo a fondo perduto e sottogoverno, e più scuola di qualità al Sud.

Ma, certo, occorre che il governo decida di investire nella scuola del Sud anche in termini di formazione ad hoc dei docenti da impegnare nei piani straordinari anti-dispersione e nelle altre iniziative (tempo pieno e scuole aperte). D’altra parte è dimostrato che nel medio-lungo periodo l’investimento in istruzione (che non è la ‘spesa’ per l’istruzione) è quello che ha un migliore ritorno dal punto di vista non solo economico ma anche sociale.

Nell’interesse di tutto il Paese.

Ma al Sud il mito dell’impiego pubblico attraversa la storia d’Italia. Servono soluzioni lungimiranti
Per capire quanto complessa e a più variabili potrebbe essere la riprogrammazione della domanda-offerta di insegnanti per il sistema scolastico italiano occorre tenere presente la storica propensione dei diplomati e laureati italiani del Sud a privilegiare l’impiego pubblico anche prima della formazione dello Stato unitario: un fenomeno notato (e pesantemente criticato per il suo significato di disimpegno da attività che comportano rischi) da Vincenzo Cuoco già agli inizi dell’800, poi sviluppatosi dopo il 1861 con la formazione degli apparati burocratici e amministrativi del Regno d’Italia (magistratura, prefetture, polizia, guardia di finanza, provveditorati alle opere pubbliche e agli studi, e anche insegnanti, specie di scuola secondaria).

Un fenomeno, dunque, che ha radici secolari, dovuto in parte – come sostenuto da buona parte della letteratura scientifica meridionalista, da Guido Dorso a Pasquale Saraceno – alle caratteristiche del contesto socioeconomico del Sud, non favorevole allo sviluppo di attività imprenditoriali richiedenti in loco competenze di livello formativo superiore di tipo tecnico-scientifico,  e in parte alla sua forte stratificazione sociale, all’interno della quale, per le classi medio-alte, l’impiego pubblico costituiva una scelta prioritaria e soddisfacente anche in termini di prestigio sociale e professionale.

I concorsi per le Pubbliche Amministrazioni, e anche quelli per insegnare nella scuola statale, erano fino a pochi decenni fa rigorosamente nazionali, e quindi era considerato normale raggiungere la sede di destinazione ovunque essa fosse. E questo è stato il destino, accettato spesso di buon grado, di generazioni di maestri e prof meridionali, di liceo ma anche universitari. Basti ricordare, andando indietro nel tempo, il salernitano Abbagnano a Torino, il siciliano Gentile a Pisa e Firenze.

La forte resistenza che stanno opponendo molti degli attuali ‘assegnati’ ad ambiti lontani da quelli di residenza è dovuta probabilmente alla loro età mediamente superiore a quella dei vincitori dei concorsi di un tempo, e all’ulteriore crescita della componente femminile tra i docenti: un conto è vincere un concorso a trent’anni e costruirsi un percorso di vita anche a mille chilometri di distanza dal luogo di nascita e di residenza, ben altra cosa è essere una insegnante quarantenne sposata e con figli, e doversi spostare lontano da casa senza avere troppe speranze di ottenere un trasferimento o un avvicinamento in tempi ragionevolmente brevi.

Ecco perché occorrono soluzioni.