Scuole chiuse ed emergenze educative: quali saranno le conseguenze?

Di Teresa Madeo*

Quali conseguenze avrà la chiusura delle aule su bambini e ragazzi? Quanto tempo ci vorrà prima che gli effetti delle classi vuote, della difficile didattica a distanza e dell’isolamento dai compagni siano metabolizzati e quindi superati?

Che cosa è accaduto in passato

I precedenti a cui guardare – come spiega un articolo sulla versione statunitense di Wired – sono soprattutto le chiusure delle scuole avvenute dopo disastri naturali come uragani, incendi e terremoti. Si tratta di situazioni molto diverse dai lockdown che abbiamo vissuto, anche perché, spesso, quelle interruzioni sono state accompagnate da evacuazioni obbligate e dalla necessità di cambiare zona e scuola, ma gli effetti procurati sono poco incoraggianti.

Nel 2005 l’uragano Katrina distrusse le case di 372.000 studenti e cancellò un centinaio di scuole pubbliche. Quelle che restarono in piedi, rimasero chiuse per settimane: al ritorno in classe alcuni studenti soffrivano di ansia, depressione e disturbo da stress post traumatico. A cinque anni dall’accaduto, più di un terzo degli alunni colpiti dal disastro mostrava di essere indietro di un anno, dal punto di vista accademico, rispetto ai coetanei. Gli eventi traumatici hanno un profondo impatto sulle comunità a più livelli e comportano conseguenze a lungo termine sulla capacità di apprendimento, perché, quando finalmente ritorna la possibilità rilassata della concentrazione, si fatica comunque a recuperare il tempo perduto. Capire quanto questi problemi ora siano legati alla chiusura delle scuole e quanto al trauma subito anche solo in relazione alla diffusione del Covid, con traumi legati a lutti e malattie di persone care, non è un compito semplice. Uno dei problemi è che mancano dati e previsioni scientifiche sulle conseguenze che hanno e potranno avere le chiusure prolungate delle scuole.

L’esempio più vicino al lockdown da COVID-19 è l’interruzione scolastica causata dall’epidemia di Ebola in Africa occidentale nel 2014. Cinque milioni di bambini non poterono andare a scuola per otto mesi: la maggior parte di noi non l’ha mai saputo e sull’impatto  e le ricadute di quelle chiusure praticamente non ci sono informazioni. Uno studio del 2019 sugli studenti argentini che negli anni ’80 e ’90 persero fino a 90 giorni di scuola a causa degli scioperi degli insegnanti ha evidenziato che queste persone avevano faticato di più a laurearsi e a trovare un lavoro, e guadagnavano in media il 2-3% in meno rispetto ai coetanei cresciuti nelle aree meno interessate dalle proteste. Da questo punto di vista il COVID-19 è stato tristemente “democratico”, perché ha investito tutti gli studenti di ogni età e grado di istruzione, in ogni Paese del mondo, perché la chiusura delle scuole ha aiutato a contenere l’epidemia; ciò non toglie però che le conseguenze non saranno per tutti uguali. Milioni di studenti consumano a scuola l’unico pasto completo della giornata; per molti, quelle ore sui banchi sono gli unici baluardi di legalità, di lotta al degrado e allo sfruttamento. I più fortunati studiano in scuole che sono riuscite a organizzare strumenti di didattica online, ma il distanziamento sociale non fa che ampliare il divario tra persone provenienti da contesti economicamente svantaggiati e studenti più benestanti. Secondo un’indagine condotta nel Regno Unito, i ragazzi che frequentano scuole private hanno il doppio delle probabilità di fare lezioni a distanza ogni giorno della settimana rispetto agli studenti delle scuole pubbliche. In Italia, quasi 1 alunno su 10 non segue mai le lezioni online; il 12,3% non ha un computer o un tablet per parteciparvi, e 4 su 10 vivono in abitazioni sovraffollate, senza spazi da dedicare allo studio (dati di Istat e Save The Children).

Come intervenire?

Ansia, stress e monotonia da distanziamento sociale possono creare un carico di lavoro mentale molto oneroso da sopportare. All’inizio della quarantena, il disagio era più che altro dovuto alla necessità di adattamento: interrotte le vecchie abitudini, ci siamo trovati alle prese con una nuova routine di vita e di lavoro, e con nuove modalità di interazioni intra ed extra familiari. Secondo gli esperti, l’adattamento completo a una nuova situazione – ora è la quarantena, ma nella vita “normale” può essere un trasferimento in un’altra città, o l’inizio di un nuovo lavoro – richiede almeno tre mesi.

Ma un primo scoglio psicologico si presenta dopo le prime tre settimane: nel nostro caso, a quasi un mese dal lockdown, potremmo aver sperimentato un momento di sconforto e malinconia, legato al fatto che l’isolamento è risultato più lungo rispetto alle iniziali aspettative. Fortunatamente, anche questa è una fase passeggera.

Come contrastare questo calo di energie? Seguendo l’esempio di chi ha affrontato ben altre forme di isolamento: gli astronauti, o gli esploratori polari di inizio secolo. Una delle prime regole è stabilire una routine giornaliera con orari regolari per la sveglia e per i pasti e momenti dedicati alla socialità telefonica e online: piccoli rituali che aiutino a spezzare la monotonia. Quando nel 1915 l’esploratore britannico Sir Ernest Shackleton rimase incastrato nei ghiacci antartici con la nave Endurance, mentre tentava la prima traversata di quel continente, si ricordò degli errori di spedizioni passate e obbligò l’equipaggio a seguire orari fissi per i pasti e ritrovarsi per un momento di socializzazione “obbligata” dopo cena. Fu anche per la sua capacità di tenere alto il morale dei suoi uomini, che riuscì a riportare tutti a casa sani e salvi.

Le preoccupazioni per i familiari distanti o ammalati o per la situazione lavorativa possono creare un perenne stato di allarme che rende difficile riposare e concentrarsi, e tiene il cervello in un costante rimuginio, e per quanto possibile, continuiamo a coltivare i progetti futuri. Tenendo presente che potrebbero essere rimandati, ma non per questo cancellati. Per arginare questi danni, si può intervenire su almeno tre fronti.

Il primo è assicurarsi che nessuno sia virtualmente solo: attraverso corsi online, attività sportive o religiose organizzate con la stessa cadenza temporale dei tempi normali e contatti giornalieri con i colleghi di lavoro si può continuare a sentirsi ancora parte di un contesto sociale organizzato. Di particolare importanza è implementare una routine che preveda occasioni di apprendimento e di socializzazione, soprattutto per i bambini costretti alla distanza da compagni e insegnanti. Uno sforzo maggiore va fatto per coinvolgere in questa forma alternativa di socialità le persone normalmente più isolate come gli anziani, gli immigrati non ancora inseriti, le persone senza dimora o con disturbi psicologici. Parallelamente, va intensificato il sistema di sorveglianza e denuncia degli abusi domestici su donne e minori, integrando l’esigenza del distanziamento sociale a quella di trovare una dimora sicura per chi vive in contesti domestici difficili.

Infine, le strutture che offrono servizi andranno potenziate per far fronte all’ondata di disagio che inevitabilmente questa pandemia si lascerà alle spalle, a partire da ora: nella solitudine del lockdown anche interventi a distanza di supporto via Skype può fare un’enorme differenza. Alla Scuola secondaria di secondo grado ed all’Università non rimane che la DaD: purtroppo sappiamo che la didattica a distanza è stata implementata in modo diseguale sul territorio e non ha la stessa efficacia delle attività in presenza, almeno per gli studenti più giovani. Lo stop della scuola in presenza ha mostrato molte altre fragilità: il difficile passaggio dalla didattica frontale a quella ‘a distanza’, la scarsa abitudine dei docenti a “dialogare” con le nuove tecnologie, il problema del sovraffollamento delle classi, la possibile fuga degli studenti stranieri.

Una riflessione dunque va fatta sui benefici incerti della chiusura della scuola e quanto stanno pagando in termini di apertura, opportunità, socialità gli studenti e le loro famiglie.

In genere, ogni riduzione dell’orario scolastico ha effetti negativi sulle abilità cognitive degli studenti, sulla probabilità di abbandono scolastico, di iscrizione all’università e di trovare lavoro, sul livello del salario in età adulta e sulle mansioni svolte sul posto di lavoro, nonché sui risultati scolastici degli eventuali figli degli attuali studenti. Gli effetti negativi sul mercato del lavoro saranno dovuti soprattutto al peggioramento delle competenze degli studenti e, di conseguenza, della loro performance scolastica. Gli esiti di tutto ciò, come si diceva, non saranno uguali per tutti: a risentirne di più saranno gli studenti provenienti dalle famiglie più povere, ma non solo, la disuguaglianza causata dalla chiusura delle scuole può trasmettersi di generazione in generazione, gli effetti negativi della perdita di giorni di scuola varranno anche per gli studenti più anziani e stimare l’impatto di ciascun giorno di scuola sulle abilità cognitive degli studenti oltre che le conseguenze sul mercato del lavoro sarà complesso ed assolutamente con esiti scoraggianti.

Il brusco calo delle competenze, unito ad un’ipotetica frenata degli investimenti nel settore istruzione, potrebbe avere effetti a lungo termine devastanti sull’economia globale. Lo stop alle attività ordinarie di scuole e università potrebbe essere la responsabile della contrazione di circa l’1,5% del PIL, da qui almeno fino al 2100. Ma questo è solo il più preoccupante degli allarmi fatti emergere dall’OCSE nel suo recente rapporto “Education at Glance 2020” – analizzato dal portale Skuola.net – che ha dedicato un focus proprio sulle conseguenze che il Covid ha avuto (e avrà) sui sistemi educativi di 46 Paesi.

Chi si prenderà le responsabilità di un tale disastro educativo e quanto questo in realtà potrebbe ancora essere in toto arginato?

*Professoressa IISCellini Fi,Docente Utilizzata su Progetti Nazionali presso USR Toscana*