Scuola e lavoro/3. Investire in case o in istruzione?

In Italia circa tre quarti delle abitazioni sono di proprietà di chi ci vive, una delle percentuali più alte d’Europa, ma ciò nonostante (o forse proprio in coerenza con questa tradizionale aspirazione degli italiani) l’acquisto di una casa per i figli resta in cima alle preoccupazioni dei genitori.

Secondo una ricerca di mercato citata da Federico Fubini, giornalista economico del Corriere della Sera in un servizio dedicato alle famiglie pubblicato lo scorso 2 giugno, due terzi delle famiglie forniscono consistenti aiuti finanziari ai figli per l’acquisto della prima casa, e “l’83% è disposto a spendere almeno 100.000 euro per questo”.

Non altrettanto sembra invece disposta a spendere per l’istruzione dei figli la grande maggioranza dei genitori, con la parziale eccezione delle famiglie più ricche (in senso economico ma anche culturale).

Evidentemente i genitori italiani non condividono l’opinione dei genitori americani (ma anche giapponesi, coreani e di altre ‘tigri’ asiatiche, mediorientali ed est europee) che investire in una buona istruzione dei figli è meglio che comprare loro la casa: dà loro maggiore autonomia, li rende più competitivi sul piano professionale, consentirà loro di comprare eventualmente una casa – magari più grande – senza averla in regalo o attendere di ereditarla. Li renderebbe insomma meno ‘bamboccioni’, come Tommaso Padoa-Schioppa definì nel 2007 i trentenni e oltre che restavano in famiglia, e meno ‘sfigati’, come secondo il viceministro Martone (gennaio 2012) meritano di essere chiamati i ventottenni ancora non laureati.

Ma, almeno per ora, sembra che le famiglie italiane preferiscano comprare la casa al figlio studente fuori corso piuttosto che indurlo a intraprendere studi impegnativi e qualificanti, lontano da casa, che lo porterebbero magari a occupare uno dei non pochi posti di lavoro che pur nelle attuali difficili circostanze le aziende offrono a lavoratori che non trovano.