Ripensare la scuola come impresa sociale: scopri come in ‘Dirigere le scuole’

La scuola va ripensata come impresa sociale, sulla base delle esigenze di chi vi lavora e del servizio che offre. Un’ovvietà? Secondo la DiSAL, in Italia no. Mentre vengono fatte finalmente le ultime nomine dei dirigenti scolastici vincitori di un concorso che durava da quattro anni e mentre vengono pagati finalmente ai dirigenti scolastici statali gli aumenti di un contratto firmato mesi fa, come ogni anno l’inizio delle scuole resta un tracciato di ripidi tornanti e una corsa ad ostacoli: ci sono 150mila supplenti da trovare, 500 scuole senza preside, 2.500 direttori amministrativi mancanti. 

In questo inizio d’anno, ai vizi del passato che si ripresentano si aggiungono una serie di pesanti incertezze sui tagli all’alternanza scuola-lavoro, sulla nuova educazione civica che non parte, sulle belle promesse di eliminazione del precariato e sulla confusione di una chiamata diretta dei docenti da parte dei dirigenti scolastici che rimane nonostante tutto. La ciliegina finale arriva con un bello sciopero indetto dal sindacato il primo giorno di scuola!

L’impressione generale, secondo un comunicato diffuso dalla Disal, è che non si abbia la percezione reale della grave crisi del nostro sistema, le cui scuole restano sempre asservite alle direttive statali centrali e impedite, nonostante la gran buona volontà di molti insegnanti e presidi, nel mettersi realmente a servizio delle comunità locali.

A questa prospettiva invece cerca di dar voce e prospettiva il quaderno “Dirigere scuole come imprese sociali. A servizio delle comunità” (n. 1/2019) pubblicato dalla rivista “Dirigere scuole. Idee e strumenti per la leadership educativa” edita da Tecnodid e prodotta dai presidi di Disal. La rivista, fin dagli inizi nel 2009, sviluppa un debito culturale e affettivo con il compianto prof. Cesare Scurati, pioniere in Europa delle riflessioni sulla leadership educativa nella direzione delle scuole e vuole esprimere nella professione direttiva la fecondità di visione de Il rischio educativo di don Luigi Giussani.

Gli interventi sono di forte attualità e di robusta prospettiva, anche in un quadro internazionale: Massimo Recalcati offre riflessioni ai presidi su come “Dirigere una scuola a servizio delle proprie comunità”; Angelo Paletta descrive “Il contributo delle comunità locali ai risultati formativi”; Jap Sheerens, Luisa Ribolzi e Giovanni Cominelli dialogano su come “Ri-pensare il modello di scuola”; Anna Maria Poggi discute su “L’autonomia regionale differenziata e l’autonomia delle scuola”; Ashley Rogers Berner confronta Usa e Italia in “What do we mean by public education?”.

Per non restare sul teorico, diversi presidi raccontano esperienze e riflessioni sulle soft skills, sul disallineamento Nord/Sud, sulla fine della scuola come fattore di ascesa sociale, su quel che ci raccontano i dati Invalsi e (come fa Tommaso Agasisti) su come utilizzarli per la gestione delle istituzioni scolastiche. Per guardare a esperienze coraggiose che sanno mettere in discussione le attuale forme culturali e organizzative si racconta anche delle “Scholas chairs” (il movimento delle scuole del Papa) e delle forme di “Homeschooling” che stanno crescendo sempre più anche in Italia. 

Negli ultimi vent’anni è emerso con sempre più vigore il tentativo di molte scuole di leggere il proprio territorio, per rafforzare il dialogo con i soggetti sociali che lo costituiscono e uscire così dalla gabbia di essere semplici esecutrici terminali delle disposizioni statali.

Si tratta del tentativo di vivere la scuola come “impresa sociale”, cioè come un’organizzazione finalizzata a soddisfare uno dei bisogni fondamentali della nazione, l’introduzione alla realtà della vita attiva dei propri piccoli e giovani. “Sociale” non solo perché senza finalità di lucro, ma soprattutto per la forte partecipazione dei soggetti coinvolti al perseguimento dello scopo comune, fino a renderli partecipi della gestione e amministrazione delle attività. È di una tendenza che non si limita ai confini nazionali: basti pensare alle “Charter schools” statunitensi e alle “Academy” inglesi, ai quali la stessa rivista aveva dedicato pubblicazioni precedenti.

Riflessioni ed esperienze tuttavia aprono una questione che nel quaderno risulta appena accennata nei contributi di attualità: ripensare il modello di scuola implica con urgenza ripensare le figure che in prima persona son chiamate a costruirla ogni giorno. Se alla scuola è chiesto di essere servizio organico delle proprie comunità, allora occorre ripensare l’organicità degli stessi “intellettuali” della scuola, i docenti e le figure direttive. A chi e a cosa debbono essere organici i professionisti della scuola? Due tesi si sono contese finora la risposta: quella liberal-nazionale che li identificava quali impiegati organici allo Stato e quella “di sinistra” che li voleva organici ad un modello futuro di società, cui forzare lo stato presente delle cose.

I caratteri della scuola come impresa sociale mostrano che questi intellettuali trovano la loro ragion d’essere e di agire nel diventare organici non solo a delle persone e, ultimamente, al mistero che le costituisce, ma anche a quella trama di relazioni nelle quali le persone sono generate e ogni giorno rigenerate. Un ripensamento che riesca a delineare nuove figure di professionisti e co-protagonisti (co-operanti) capaci di concepirsi e di agire a servizio delle persone e delle loro comunità, in un contesto di autonomie istituzionali e di libertà educative riconosciute. A questo lavoro si dovrà probabilmente dedicare l’impresa di una prossima pubblicazione.