Rapporto Invalsi 2021: la vera causa del Learning Loss

di Roberto Franchini*

Da pochi giorni il rapporto INVALSI ha evidenziato la rilevante perdita negli apprendimenti (Learning Loss) nel contesto italiano. Già in primavera, l’OCSE, attraverso il rapporto The state of school education. One year into the COVID pandemic, aveva evidenziato il medesimo fenomeno, tentando al contempo di darne un’interpretazione causale.

A molti sembrerà che la relazione tra emergenza pandemica e perdita negli apprendimenti sia del tutto scontata. Eppure, non è proprio così. Al di là della durata delle chiusure e della diversità delle soluzioni usate per garantire la continuità educativa, potrebbero esserci cause più profonde, le quali, interagendo con i fattori ambientali, contribuirebbero in modo sostanziale nel determinare la varianza nel dato sugli esiti. Il fattore umano, infatti, è sempre decisivo in tutti i fenomeni sociali, o, per dirla in altri termini, gli elementi di rischio a livello contestuale non possono da soli spiegare gli avvenimenti. La didattica a distanza, poi, non può di per sé rappresentare un fattore di rischio, se non entrando nel vivo delle modalità in cui essa viene organizzata e gestita.

Infine, c’è da considerare che le disuguaglianze negli apprendimenti erano già presenti prima della pandemia, ed è significativo constatare come l’emergenza abbia prodotto un impatto superiore proprio nei contesti che già in precedenza mostravano una maggiore fragilità educativa, a dimostrazione del fatto che variabili più profonde hanno agito, e ancora agiscono, nel determinare  la perdita negli apprendimenti.

Da qui la domanda che guida il titolo di questo breve articolo, volutamente provocatoria: qual è la vera causa dell’insuccesso formativo e della disuguaglianza negli esiti? Ovvero, qual è il fattore umano (non contestuale) che origina un così nefasto effetto? Per rispondere a questa domanda, si potrebbe partire da una sorta di postulato indimostrabile: in tempo di riduzione del tempo educativo, o per meglio dire in tempo di minor controllo sulla situazione formativa, la variabile determinante risiede nell’autodeterminazione degli studenti nelle attività di apprendimento. Quando il docente ha meno strumenti per influenzare il comportamento dei propri allievi, c’è da sperare che i bambini e i ragazzi siano loro stessi desiderosi di crescere, e capaci di dare una direzione al proprio percorso formativo. Diversamente, venendo a mancare il pungolo dell’adulto, è inevitabile che l’attività di apprendimento rallenti, o persino cessi (ammesso che questo sia possibile).

Oltre a questo, l’esplosione dell’uso delle tecnologie ha reso ancora più importante il ruolo dell’autodeterminazione, e questo per diversi motivi. Prima di tutto, la tecnologia, con la sua pervasività sensoriale e ricchezza di contenuti di ogni tipo, espone ad un rischio molto maggiore di distrazione. In secondo luogo, l’apprendimento in ambiente digitale, specie se nella modalità a distanza, può diminuire anche significativamente il fattore relazionale, lasciando il giovane per così dire in balia di se stesso e dei suoi sistemi motivazionali. Infine, apprendere in rete richiede una capacità di scelta e di orientamento nei contenuti che solo in parte può essere mediata dalla guida del formatore.

E’ venuto il momento di dare una più accurata definizione del costrutto di autodeterminazione. Per essa, intendiamo la capacità (e la possibilità) che lo studente sappia (possa) avere influenza sulle principali dimensioni dell’apprendimento, ovvero le cosiddette 5 W: che cosa apprendere (What), quando farlo e con che ritmo (When), con chi (Whom), dove (Where) e come (How). Come può risultare evidente, queste cinque traiettorie vengono letteralmente esplose dall’ambiente digitale integrato: i contenuti sono infiniti, i tempi e i ritmi possono essere personalizzati, le interazioni si moltiplicano, i luoghi e le modalità possono andare ben oltre a quelle cui siamo abituati.

A queste vu doppie ne va aggiunta una sesta, sovra-ordinata e decisiva: perchè (Why) dovrei apprendere? Letteralmente, chi me lo fa fare? Che valore ha per me? Per quale motivo dovrebbe interessarmi? Personalmente, sono convinto che il fattore motivazionale è ancora grandemente sottovalutato dalle politiche e dalle pratiche di istruzione, eccessivamente centrate su una malintesa concezione di obbligo, da ricondurre al ruolo preponderante dei cosiddetti standard di apprendimento.

Per tornare al postulato da cui siamo partiti, studenti motivati e in grado di costruire e guidare il proprio percorso di apprendimento non dovrebbero risentire più di tanto di eventuali interruzioni della frequenza scolastica. Per una generazione di studenti con queste caratteristiche, l’incidenza di fattori come l’intensità delle attività di istruzione e la contiguità nello stesso spazio-tempo non dovrebbe essere particolarmente rilevante. Al di là di questo, e fuori dalla logica dell’emergenza, l’autodeterminazione potrebbe rivelarsi in positivo come la sorgente più genuina dell’apprendimento, e in negativo come la principale causa del fenomeno del Learning Loss (fenomeno dunque soltanto amplificato, non generato, dall’attuale contingenza pandemica)

Ma la scuola italiana educa all’autodeterminazione? In realtà, in prima battuta la risposta è francamente negativa. Nell’attuale paradigma (che in precedenti contributi ho definito “educativo cartaceo”) l’istruzione è organizzata sulla base dell’assunto che l’educazione dei giovani debba essere gestita dagli adulti in modo estremamente direttivo: il che cosa (Why) è definito da standard nazionali dettagliati e prescrittivi (riconducibili in realtà più agli indici dei libri di testo – e ai retaggi degli insegnanti – che a effettivi ordinamenti); i tempi e i ritmi dell’apprendimento (When) sono pianificati e ricondotti nel letto di Procuste di orari segmentati; il dove (Where) è confinato nello spazio angusto di un’aula, o persino di un banco.

Quando i giovani sono costretti ad imparare contenuti per i quali non provano alcun interesse,  diventano inevitabilmente annoiati e stanchi. Per essi, la modalità a distanza, con il conseguente  allentamento della dinamica del controllo, può aver rappresentato una buona via di fuga, che tuttavia non genera qualcosa di inedito, ma amplifica in modo sottile e invisibile dinamiche già presenti nel normale contesto educativo.

La tecnologia, la cui importanza è enormemente aumentata in questo strano tempo, richiama l’esigenza di un cambiamento culturale, che è educativo, molto prima che tecnologico. L’educativo digitale non è l’inserimento della tecnologia a scuola, né una formula di didattica integrata, ma un cambiamento paradigmatico, una rivoluzione copernicana in grado di mettere al centro il tema dell’autodeterminazione, in tutti i suoi risvolti di metodo, dallo spazio al tempo, dalle risorse alle nuove competenze degli insegnanti.

*Professore Universitario del Sacro Cuore di Milano e Brescia