Questi nostri anni

E così, mentre gli anni della nostra vita passavano, quelli della mia età, forse non si sono accorti di attraversare tre fasi storiche: quella dell’infatuazione libertaria e delle possibilità senza limiti, nell’ultimo trentennio del Novecento; quella del crollo delle certezze, nel primo quindicennio del secondo millennio; e quella degli ultimi due-tre anni in cui si è delineato un nuovo profilo della realtà tale da annullare, in qualche modo, tutte le conquiste precedenti.

Iniziamo dalla prima fase, quella delle certezze. Quanti, come me, vi hanno vissuto la giovinezza, hanno conosciuto, fra gli anni Settanta e la fine del Novecento, una sorta di Belle èpoque. Quel trentennio favoloso, il cui entusiasmo ancora vibra nelle canzoni, è stato definito dagli studiosi col nome di “epoca postmoderna”.

Infatti, a partire dalla rivoluzione studentesca, si è venuto a delineare, come è noto, un nuovo atteggiamento intellettuale che si poneva contro tutto il sistema culturale dell’epoca precedente, basato sui valori greco-illuministi della razionalità e dell’oggettività, e sceglieva, invece, come chiave di lettura del mondo, l’antisistema, il soggettivismo, il disordine, il cambiamento fine a se stesso.   

Il postmoderno era, infatti, insofferente a tutto ciò che si rivelava teorico, rigido, chiuso. Anche se, a sua volta, era radicato, contraddittoriamente, sopra un nuovo dogma: la convinzione dell’ineluttabilità ed inarrestabilità del progresso.

La caratteristica principale della cultura postmoderna va riscontrata nella cosiddetta “leggerezza dello spazio”. Il mondo veniva inteso come un unico spazio, un’unità globale, in base alla libertà delle merci e delle idee.

Un’altra caratteristica era la prevalenza del linguaggio dell’inclusione rispetto a quello dell’esclusione. Dominava la filosofia del “tutto-è-permesso” e del “tutto-è-possibile”.

Il mondo di quegli anni è stato unificato dall’inglese e dal modem, dai miti della musica e dello schermo, dalle mode planetarie … Da un’atmosfera di ottimismo e permissivismo.

Ma, ad un certo punto, è come se una grande mano abbia voltato pagina e, quasi a nostra insaputa, ci siamo ritrovati in una nuova era, contraddistinta dall’incertezza e dalla contraddizione.

Già all’inizio del Duemila, il crollo apocalittico delle Torri Gemelle metteva fine ad ogni entusiasmo, mostrando il lato oscuro della globalizzazione.

Con la crisi, esplosa nella prima decade del nuovo secolo, dal mito del futuro senza limiti, si è tornati bruscamente all’atmosfera dell’instabilità e dell’incertezza del passato. 

A questo nuovo periodo storico, Zigmunt Bauman ha dato il nome di “società liquida”, per sottolineare la disgregazione delle certezze degli anni precedenti, ma anche il carattere ambivalente con cui, in questa nuova fase, viene percepito il progresso: da un lato, rischioso ed insicuro, dall’altro, ancora capace di potenzialità illimitate.       

Così, nei primi quindici anni del Duemila, dal mondo senza confini dell’età globale, si perveniva alla frantumazione dei popoli e delle culture. Ai ponti facevano seguito le barriere. Gli Stati nazionali, dichiarati anzitempo finiti, rialzavano la testa.

Ma oggi, alla fine della seconda decade del nuovo millennio, possiamo ancora dire di trovarci nella società liquida di Bauman?

La tesi del recente libro di Carlo Bordoni, “Fine del mondo liquido” (Il Saggiatore) è che, in questi ultimi anni, stiamo assistendo ad una “nuova solidificazione del mondo liquido”.

L’indefinitezza del primo quindicennio del nuovo millennio, si è andata man mano concretizzando in nuove certezze, purtroppo negative. Ormai si profila la crisi definitiva dell’età globale ed un netto ritorno al particolarismo.

Infatti, in risposta alle migrazioni di massa, sono spuntati i muri e i fili spinati alle frontiere greche, ungheresi, bulgare, fino al Brennero, per non parlare dell’America auto centrata di Trump.

Contro il terrorismo jihadista ed i suoi camion della morte, sono sorti blocchi stradali nelle arterie principali delle nostre città. Un prezzo da pagare non indifferente per l’identità del nostro paesaggio urbano.

Diciamolo. Donald Trump è il vero emblema di questa terza fase. Egli, scientemente ed inesorabilmente, sta distruggendo tutto ciò che di buono è stato costruito prima di lui.

E chi l’avrebbe potuto immaginare l’apparizione, sulla scena della storia, di personaggi minacciosi come Trump e Kim Jong? 

Nonostante tutto, si dice, la globalizzazione non può essere azzerata. Nella storia, qualsiasi regressione al passato è illusoria ed impossibile. Infatti, lo sviluppo tecnologico è irreversibile, mentre gli stessi interessi finanziari non consentirebbero un ritorno alle antiche economie chiuse.

Ed allora, verso quale futuro siamo diretti?

Impossibile rispondere. Del resto, nessuno avrebbe potuto prevedere né la rivoluzione studentesca, né le Torri Gemelle, né la crisi del 2007, né l’esplosione della violenza islamistica.

Oggi, a mio parere, l’unico atteggiamento possibile è quello che Mounier chiama “ottimismo tragico”, consistente, ad un tempo, in un realismo prosaico ed in una fiducia audace, poetica, verso le nostre capacità di adattamento alle sfide del momento storico.

Anche le difficoltà più radicali possono essere trasformate in occasione di trasformazione e di crescita.

Secondo Albert Einstein, “La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura”.

Di Luciano Verdone
Docente di Filosofia
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