Quali skills per i giovani del XXI secolo? Cosa può fare la scuola italiana?

Se si è ammalati, un riflesso automatico ci spinge a curarci. Non è comune invece un riflesso analogo per curarci dall’ignoranza. Eppure, se l’ignoranza non è una malattia in senso clinico, è certamente un grave handicap da contrastare, che esclude da molte opportunità offerte dalla convivenza civile, fra cui anche il lavoro. Purtroppo, indagini internazionali (PIAAC-OCSE 2013) indicano che nel nostro paese circa il 30% della popolazione (16-64 anni) vive in una condizione di sostanziale illetteratismo funzionale per quanto riguarda la literacy e la numeracy (contro il 15% dei paesi avanzati UE).

E poi c’è un livello intermedio (40%, contro il 20% UE) con competenze fragili, limitate, a rischio di obsolescenza. Solo il 30% della nostra popolazione può vantare livelli adeguati o elevati (contro il 65% di UE). Né ci è d’aiuto sapere che sui nostri valori medi incide pesantemente l’arretratezza di alcune regioni del nostro Sud. Se si guarda poi ai titoli di studio, i giovani al di sotto del ciclo secondario (con al massimo il titolo di licenza media) sono da noi il 40%, contro il 20% dei paesi OCSE. I laureati, da noi, sono solo il 18%, contro il 36% dei paesi OCSE.

Questa è una emergenza nazionale, poco nota e pericolosamente sottaciuta. La storia ci insegna che una popolazione ignorante è pericolosa per la democrazia, soggetta come è a facili manipolazioni e a una sudditanza perenne. Ma non si può non tener conto di cambiamenti epocali di scenario in cui la nostra scuola ha operato nel secolo scorso. Il primo: il graduale passaggio da una scuola per pochi a una scuola per tutti. Ma se la nostra scuola ha cambiato scala dimensionale non ha sufficientemente ripensato la sua natura e la sua organizzazione per affrontare una popolazione proveniente da strati sociali così variegati. E così bisogna riconoscere che in Italia si è persa la sfida della qualità di massa (come risulta dai confronti internazionali delle indagini P.I.S.A/OCSE sugli apprendimenti dei quindicenni che risultano sotto la media degli oltre 60 paesi testati). Il secondo: l’irrompere tumultuoso nella società degli strumenti di comunicazione di massa, che hanno conquistato il controllo dell’informazione, ed anche quello dell’attenzione dei giovani. Per troppa parte della giornata, essi subiscono, fuori della scuola, l’influenza di potenti e pervasive agenzie esterne (TV, Internet, nuovi strumenti digitalizzati, …), motivate da prevalenti logiche di mercato, scarsamente attente alla qualità dei messaggi educativi o anche apertamente in contrasto con essi (agenzie pirata). Il terzo: la rivoluzione tecnologica con le sue straordinarie accelerazioni.

Sentiamo tutti che sono in gioco potenzialità enormi, sia in positivo che in negativo. Con l’intelligenza artificiale, l’ingegneria genetica, i cyborg, oggi si può pensare che avvenga quello che si è sempre ritenuto impossibile: davanti a noi sembra profilarsi un vero e proprio “salto” antropologico, con sfide inedite al nostro attuale sistema di valori.

Quali possono essere, in questo contesto e nel nostro paese, le missioni della scuola per il XXI secolo? Per noi di TreeLLLe, le principali sono almeno due. La prima: ribadire che la scuola di oggi deve aspirare a istruire tutti, non uno di meno, così da sconfiggere la piaga dei giovani che la scuola perde per strada (abbandoni attorno al 17%). Lavorare in questa direzione richiede da un lato nuove prassi e interventi di “orientamento”, per favorire più adeguate scelte dei giovani e dall’altro che il MIUR dia reale autonomia alle scuole per consentire loro una maggiore “personalizzazione” della didattica e una organizzazione adeguata al contesto socio-economico in cui operano.

Una maggiore autonomia delle scuole deve però essere controbilanciata da un Sistema Nazionale di Valutazione esterna degli esiti. Questo implica aprire la strada alla valutazione della qualità delle singole scuole, dei meriti dei presidi e degli insegnanti esemplari, quelli che fanno la differenza tra scuola e scuola. Questi dovrebbero diventare i protagonisti di un’innovazione che si sviluppi dal basso e dovrebbero fare da mentori ai colleghi più giovani o meno esperti. Ma c’è una seconda nuova missione che, per come si è sviluppata oggi la società, risulta imperativa: la scuola, mentre istruisce, dovrebbe allo stesso tempo esplicitamente porsi l’obiettivo di “educare a vivere con gli altri”, cioè dare ragione, sempre con spirito critico, dei valori di base della nostra civiltà (ad esempio quelli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ONU 1948). Ma anche delle buone regole di comportamento per dar luogo a una comunità dove uomini e donne cooperino rispettando le differenze e i diritti di ciascuno, così da favorire una cittadinanza attiva e responsabile.

Viviamo in tempi in cui, specie per i giovani, è arduo definire chiare gerarchie di valori. TreeLLLe ritiene che la scuola debba operare evitando gli opposti pericoli della neutralità e dell’indottrinamento e sia aperta al libero pensiero, al dubbio metodico, al metodo di indagine delle scienze. L’esperienza (e nostri recenti ampi sondaggi), dimostra che l’educazione ai valori può in parte passare attraverso le discipline, in particolare quelle non a caso dette “umanistiche”, ma non può esaurirsi in esse.

Occorre allora pensare ad una scuola in cui non si svolgano solo lezioni, ma siano previste nel curriculum anche “attività formative” interattive e interdisciplinari; dove i giovani vengano educati anche attraverso una “pedagogia della controversia”, che li abitui a confrontarsi civilmente con opinioni e certezze diverse dalle proprie; dove siano guidati a cercare e trovare le risposte alle domande di senso che la loro età propone, senza considerarle verità assolute. E saranno essenziali per tutti, negli ultimi anni di corso, “attività di servizio per la comunità esterna”, per imparare a scoprire, vivendolo e mettendolo in pratica, il contratto sociale su cui si reggono tutte le comunità. Queste prassi educative sono già parte importante dei piani didattici di molte scuole nel mondo e anche da noi laddove operano insegnanti innovativi. Se si praticassero sistematicamente, si supererebbe quell’“isolamento della scuola dalla vita” di cui, già molti anni fa, si lamentava John Dewey che raccomandava di farne “un embrione di vita comunitaria permeata dallo spirito dell’arte, della storia e della scienza”.

Eppure c’è ancora chi, nel nostro Paese, contesta in linea di principio che alla scuola spetti la funzione di educare; tanto che molti insegnanti, non formati né motivati ad assumere questo compito, lo ignorano nei fatti. Ma, come si dice, se la guerra ė cosa troppo seria per lasciarla decidere solo ai militari, lo stesso vale per i contenuti chiave dell’istruzione e della educazione dei nostri giovani, che non possono essere consegnati solo alla iniziativa e responsabilità degli insegnanti. Una scelta di tale portata dovrebbe essere discussa e decisa dal Parlamento, cercando il consenso più ampio delle forze politiche.

Per realizzare queste due missioni è peraltro essenziale che la scuola italiana proceda ad una notevole revisione dei suoi presupposti e del suo modo di operare:

– nei programmi, ancora troppo enciclopedici e poco attenti ai saperi essenziali (le key competences UE 2006);
– nei metodi didattici, troppo trasmissivi e poco interattivi e coinvolgenti;
– nella formazione degli insegnanti, tuttora centrata sulle discipline e non sull’educazione alla “intelligenza emotiva” e ai valori di cittadinanza;
– nel tempo scuola, che dovrebbe essere “pieno” almeno fino ai 13-14 anni, per dare a tutti una maggiore parità di opportunità iniziali;
– nelle pratiche formative, che dovrebbero incorporare, in tempi curriculari, “l’educazione a vivere con gli altri” (che si tratti di educazione civile, civica o ancora del fatto religioso).

Ci possono essere d’aiuto le nuove tecnologie? È una domanda retorica, perché comunque esse fanno ormai parte della nostra vita e la modificheranno in profondità, anche se ancora non possiamo immaginare come ciò avverrà: al momento, ad esempio, vediamo tutti i rischi di un uso perverso di Internet e dei Big Data, ma sono evidenti le straordinarie opportunità che si aprono per il futuro. Le innovazioni scientifiche sono delle amoral amplifyer: ciò che fa la differenza sono gli obiettivi in vista dei quali sono utilizzate. Bisogna evitare, come dice monsignor Ravasi, i rischi della civiltà mediatica: “una bulimia di mezzi e un’atrofia di fini”. Internet, ad esempio, come spesso ci ha ricordato Eco, non fornisce filtri né intermediari accreditati per selezionare la debordante quantità di informazioni che ci avvolge. Per lui, nel nostro tempo, una buona educazione consiste anche nell’insegnare i criteri per operare una selezione consapevole e finalizzata.

Questa è proprio la funzione del maestro, di cui ci sarà sempre necessità: gli studenti possono essere anche nativi digitali, ma hanno bisogno di aiuto per imparare a usare la tecnologia per scopi educativi ed evitare uno zapping senza senso. Quella di un’auto-organizzazione dell’educazione ci sembra un’utopia, che va demitizzata. Per concludere, un cenno per la migliore allocazione delle risorse finanziarie. Sulla base della grande esperienza e delle sue ricerche, l’Unesco sostiene che il denaro speso meglio sarà proprio quello impiegato per formare insegnanti competenti per il miglior uso didattico delle nuove tecnologie e motivati non solo a istruire ma anche ad “educare a vivere con gli altri”: di conseguenza l’Unesco suggerisce che gli investimenti nella formazione degli insegnanti dovrebbero allora essere altrettanto significativi di quelli investiti per la strumentazione tecnologica.

Attilio Oliva
dottore in Filosofia, imprenditore, amministratore pubblico, fondatore dell’Associazione TreeLLLe.
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