Nuove frontiere dell’educazione: tra deep learning e deeper learning

Tra i termini inglesi, pressoché intraducibili, che stanno diventando di uso corrente nel dibattito internazionale sul futuro (per certi aspetti già iniziato) dei sistemi educativi ci sono anche il deep learning e il deeper learning, che sembrerebbero afferire al medesimo campo concettuale, essendo il secondo il comparativo del primo. E invece no, come cerchiamo di spiegare cominciando dal deep learning (letteralmente “apprendimento profondo”).

Il deep learning

L’apprendimento cui fa riferimento questa locuzione non è quello dell’alunno che apprende, ma quello di una macchina che impara. Un computer, insomma, capace di classificare ed elaborare enormi quantità di dati utilizzando una tecnica di apprendimento automatico delle nuove informazioni che in esso vengono inserite. Oggi, per fare qualche esempio, il deep learning è la tecnologia fondamentale impiegata nelle automobili a guida autonoma ed è alla base del controllo vocale in dispositivi quali telefoni cellulari, tablet, TV e altoparlanti vivavoce. I dati via via acquisiti possono essere costituiti da testi, immagini, suoni che vengono organizzati in reti neurali che simulano il funzionamento del cervello umano e operando ad alta velocità sono in grado di rispondere a stimoli (per esempio a domande o all’assegnazione di compiti) sempre più complessi.

È chiaro che questa tecnologia, che si colloca nell’area della Intelligenza Artificiale, in fortissimo sviluppo, potrebbe avere (e sta già avendo) importanti applicazioni anche in campo educativo. Potrebbero essere apprestati piani didattici personalizzati, gestibili dall’alunno sia in presenza sia a distanza, con una grande quantità di contenuti audiovisivi e interattivi calibrati sulle sue caratteristiche (età e grado di scuola frequentata, ma anche interessi, attitudini, potenzialità).

Si ridurrebbe al minimo necessario l’impegno del docente nel trasferire nozioni, che potrebbe concentrarsi su aspetti più qualitativi, e aumenterebbe l’autonomia dell’alunno, la sua capacità di autovalutazione e di costruzione del suo personale bagaglio di conoscenze e competenze. Da solo o in piccoli gruppi, con l’assistenza del docente, che potrebbe aiutarlo, o aiutare i gruppi, a risolvere eventuali problemi e a fissare nuovi compiti e obiettivi. Certo, servirebbe una adeguata produzione di software didattico di qualità, e contestualmente la formazione dei docenti per metterli in condizione di utilizzarlo al meglio.

Nell’attuale governo ci sono personalità, a partire dal ministro Bianchi, sensibili ai temi dell’innovazione tecnologica e della transizione digitale. E c’è il problema di come recuperare il learning loss accumulato a causa della pandemia. Bene, anche il deep learning in prospettiva potrebbe contribuire.

Il deeper learning

A differenza del deep learning, che è il modo di imparare di un computer (che peraltro simula le reti neurali umane), ildeeper learning è un modello di apprendimento riferito a un alunno che apprende. Un modello pedagogico la cui traduzione letterale in italiano – apprendimento ‘più approfondito’, o forse meglio ‘potenziato’ – rende solo parzialmente l’idea di che cosa si intenda negli USA (ma anche in ambienti OCSE) con questa espressione.

Elaborato tra la fine dello scorso secolo e il primo decennio di quello in corso, il modello del deeper learning è stato messo a punto da Fondazioni come la Hewlett Foundation e studiosi dell’Università di Harvard soprattutto con l’intento di rilanciare la high school americana (i quattro anni conclusivi della scuola di base K-12) e migliorare la preparazione degli studenti in vista della loro iscrizione ai College e alle Università. Il principale obiettivo dei teorici di questo approccio metodologico, che sta ottenendo crescenti adesioni, è quello di integrare il tradizionale curricolo con una serie di competenze personali necessarie per vivere e lavorare nella società globalizzata, digitalizzata e iper-dinamica del XXI secolo.

La Fondazione Hewlitt nel 2010, e poi ancora nel 2019, le ha così individuate:

  • Padronanza dei contenuti accademici (le discipline fondamentali: lettura, matematica e scienze)
  • Sviluppo del pensiero critico e capacità di risoluzione dei problemi
  • Capacità di lavorare in modo collaborativo
  • Comunicazione orale e scritta efficace
  • Imparare a imparare
  • Sviluppare e mantenere una mentalità aperta (academic mindset)

Si noterà una certa assonanza con le otto competenze chiave di cittadinanza europee, definite tra il 2006 e il 2018.

Una efficace e approfondita rappresentazione non solo del dibattito teorico ma anche della condizione attuale della high school americana si deve a due ricercatori della Harvard Graduate School of Education, Jal Mehta e Sarah Fine, che nel loro volume In search of Deeper Learning (Harvard University Press, Cambridge-London 2019) sostengono, dopo aver esaminato a fondo un campione di 30 high school considerate eccellenti, che non esiste un modello in assoluto preferibile ad altri, ma che al deeper learning si può arrivare per vie diverse e perfino antitetiche. I due modelli che si pongono agli estremi opposti nella gamma delle scuole esaminate sono da una parte quello che ha per obiettivo fondamentale il conseguimento dell’equità, intesa come raggiungimento di risultati soddisfacenti per tutti gli alunni (i migliori possibili per ciascuno di essi), e dall’altra quello che propone una nuova Grammar of Schooling, intesa come rilettura delle tradizionali discipline otto-novecentesche in chiave rigorosamente interdisciplinare e con un forte richiamo alla visione deweyiana della funzione dell’educazione nella costruzione della società democratica.

Per evidenziare il carattere dominante dei due modelli potremmo dire che il primo punta sulla personalizzazione e quindi sulla variabilità soggettiva del curricolo, il secondo sulla individualizzazione della didattica, fermo restando il curriculo, uguale per tutti ancorché interdisciplinare.

L’ideale, osservano i due studiosi, sarebbe un modello intermedio, capace di cogliere gli aspetti migliori degli altri due. Ci si avvicina un po’ l’International Baccalaureate (IB), ma ciò che più conta è che si punti sempre e nel modo più rigoroso sulla valorizzazione degli individui, qualunque sia il modello adottato. Individui da considerare però sempre come cittadini, non come produttori: gli economisti dell’istruzione non sono citati quasi mai e i test, sul cui esito essi fondano le loro teorie, sono giudicati vetero-disciplinari e comunque non in grado di valutare le competenze del XXI secolo.