Non si può andare avanti solo con le bocciature: cosa può fare il DS

In Italia le competenze cognitive degli adulti, stabili negli ultimi dieci anni, continuano ad essere lontane dai risultati medi Ocse in ‘literacy’, ‘numeracy’e ‘adaptive problem solving’: in particolare, in literacy il 35% dei 16-65enni (la media Ocse è 26%) ottiene un punteggio pari o inferiore al livello 1, quello che indica la capacità di comprendere testi brevi ed elenchi organizzati, quando le informazioni sono indicate. Le persone che non raggiungono il livello 1 – più di una su tre -sono in grado di comprendere, al massimo, frasi brevi e semplici, sono in pratica in una condizione di ‘analfabetismo funzionale’. È quanto emerge dall’Indagine sulle competenze degli adulti (survey of adult skills) realizzata nell’ambito del Programma dell’Ocse per la valutazione internazionale delle competenze degli adulti (Programme for the international assessment of adult competencies, Piaac). Su questi dati l’ISTAT ha elaborato più volte analisi preoccupanti sul futuro dell’Italia. Martina Pennisi (“l’intelligenza artificiale non ci capisce: siamo stupidi noi (o lei)?”,sul “Corriere della sera” del 9 luglio 2024) ha documentato che “solo il 10% della popolazione è al momento in grado di porre per iscritto domande corrette all’AI, che è l’unico modo per ricevere risposte pertinenti e utili”. Ritengo di poter dire che dentro questo 10% c’è una gran parte degli studenti delle Scuole secondarie italiane, il che fa venire i brividi pensando a chi sono quelli che fanno parte del 90% e che ci circondano. Il problema è capire – e in fretta – in che modo mettere i nostri studenti al sicuro, prima che anche una parte di loro cada nell’analfabetismo funzionale. Anche perché dentro una famiglia in cui si sviluppa l’analfabetismo di ritorno dentro una grande confusione culturale evidenziata da un uso ossessivo dei social, dall’assenza di libri e giornali, dalla visione di spettacoli trash senza alcun reale interesse culturale, il rischio è l’assorbimento da parte dei figli di questo degrado cognitivo, quasi come una malattia trasmessa.

Eliminare i saperi inerti

Come è possibile intervenire, cioè, prima che sia troppo tardi? La prima cosa da fare è eliminare dalla scuola i saperi inerti. Un sapere inerte è quel sapere che non genera reazione, non produce alcun interesse, alcuna curiosità. È un sapere che spinge all’inedia e al disinteresse, che allontana l’attenzione e non stimola la ricerca. Niente di niente, una pura sequenza di parole, immagini, formule prive di alcun senso sociale. Il sapere inerte è uno dei fattori caratterizzanti le povertà educative, visto che il soggetto che apprende è circondato dall’inutile e dal nocivo dentro un chiacchericcio spesso solo percepito, nella totale assenza di rapporto con quelle che sono le basi pro-attive dell’apprendimento (interesse, curiosità, attenzione, studio, comprensione, padronanza). Davanti ai saperi inerti gli studenti si rifugiano nel digitale, dove molto spesso tutto è mobile e poco inerte, ma troppe volte anche privo di contenuto, è cioè privo di quell’aggancio necessario con il concetto stesso disapere da apprendere. Chi deve ostacolare i saperi inerti a scuola? Penso possa e debba partire tutto dalla figura del dirigente scolastico, che deve stimolare docenti e studenti anche nelle loro strutture organizzative (collegi docenti, dipartimenti, gruppi di lavoro, comitati studenteschi, classi) a lavorare sull’apprendimento, a sperimentare, a provare. In questo senso il comma 3 dell’articolo 25 del d.lgs 165 del 31 marzo 2001 è ancora non solo valido ma assolutamente attuale: “ il dirigente scolastico promuove gli interventi per assicurare la qualità dei processi formativi e la collaborazione delle risorse culturali, professionali, sociali ed economiche del territorio, per l’esercizio della libertà di insegnamento, intesa anche come libertà di ricerca e innovazione metodologica e didattica, per l’esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie e per l’attuazione del diritto all’apprendimento da parte degli alunni.” Se il dirigente scolastico, preso da impegni di carattere amministrativo o non certo sull’indirizzo che deve prendere la sua scuola, non presidia il problema, questo può solo ingigantirsi con risultati negativi su tutta la filiera scolastica.

Ecco il brain rot

La povertà educativa non ha solo come risultato l’analfabetismo di ritorno, ma anche quello che da non molto tempo viene chiamato “brain rot”, letteralmente “cervello marcio” o “marciume cerebrale”. Il “brain rot” è l’incapacità di comprendere anche le cose più elementari in quanto il proprio cervello è pieno di cose inutili, dannose, futili, spazzatura culturale, che ha quasi sempre origine digitale. Sarebbe sbagliato e fuorviante ritenere che un uso eccessivo del cellulare o del digitale produca automaticamente il “brain rot”. Non è eccessivo dire che i ragazzi sono in situazione di pericolo nei confronto del “brain rot”. Bisogna, insomma, fare molta attenzione a non generalizzare, ma neppure a minimizzare. Il pericolo c’è, ma è visibile e riconoscibile. La maggior colpa che possono avere le scuole è sottovalutarlo o ignorarlo.

Questo è solo un estratto dell’articolo presente nel numero 652 di Tuttoscuola.
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Chi è l’autore?
Stefano Stefanel
Già dirigente scolastico, autore di Tuttoscuola.

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Nel numero 652 accompagniamo i lettori in un viaggio dentro le grandi sfide (e le grandi domande) dell’educazione di oggi:

🧭 L’Europa delle competenze sarà anche quella della scuola?
📚 Quali strumenti servono davvero per leggere il disagio, guidare l’orientamento, superare il modello standard?
🧠 Che forma prende la scuola se la guardiamo con gli occhi di Papa Francesco? Una pedagogia della cura, della parola, della scelta.

E poi: ITS, IA nella formazione professionale, dirigenti alle prese con le povertà educative, genitori, arte, sviluppo sostenibile, adolescenti influencer.

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