
Neuroscienze e benessere docente: prendersi cura per prendersi cura

Maestri e maestre, professori e professoresse, uomini e donne che ogni giorno, con silenziosa dedizione, scelgono di esserci.
Scelgono di esserci anche quando il mondo sembra voltargli le spalle, anche quando le aule si fanno troppo strette per accogliere tutti i sogni, e il tempo troppo breve per ascoltare ogni silenzio. Sono uomini e donne che, con discrezione e coraggio, si prendono cura di ciò che abbiamo di più prezioso, i nostri figli e con essi il nostro futuro.
Sono lavoratori instancabili, spesso in contesti difficili, a volte molto distanti da casa, dagli affetti, dalle proprie certezze. Li vediamo partire all’alba, percorrere lunghi tragitti in treno, in nave, in autobus o in macchina, pur di essere lì, pronti, prima del suono della campanella. Non per un dovere sterile, ma per una missione profonda: educare.
Educare non è soltanto trasmettere contenuti, ma un atto radicalmente umano. È entrare in relazione, accogliere, ascoltare, sostenere. È farsi carico ogni giorno non solo della crescita intellettuale, ma anche delle fragilità, dei dubbi e dei sogni di chi si ha davanti. L’insegnamento è un lavoro che si radica nel cuore prima ancora che nella mente, e richiede una presenza autentica, una dedizione totale, una continua capacità di mettersi in discussione.
Ogni giorno, nelle scuole di ogni angolo del Paese, si gioca una partita silenziosa tra la stanchezza e la speranza, tra la fatica e il desiderio di fare la differenza. Spesso in solitudine, spesso senza il riconoscimento che sarebbe giusto. Eppure gli insegnanti restano. Restano per vocazione, per amore, per senso di responsabilità e per professionalità.
Le neuroscienze, oggi, ci aiutano a comprendere qualcosa che il cuore degli educatori sa da sempre: prendersi cura di sé è il primo passo per potersi prendere cura degli altri. Il benessere psicofisico dei docenti non è un lusso, ma una necessità strutturale del sistema educativo. Perché uno sguardo sereno, una mente lucida, un cuore presente possono fare la differenza tra una lezione e un’esperienza di vita.
Gli studi ci dicono che la motivazione, la regolazione dello stress, la salute emotiva di un insegnante influenzano profondamente l’intero clima della classe, i risultati scolastici e, ancora più a fondo, lo sviluppo delle competenze affettive e relazionali degli studenti. Un insegnante che sta bene è un faro, una guida, un porto sicuro. È colui o colei che può davvero aiutare i ragazzi a crescere, a credere in sé, a diventare cittadini consapevoli e persone migliori.
Prendersi cura dei docenti significa, allora, costruire una scuola capace di rinascere. Una scuola che non si limiti a funzionare, ma che sappia ispirare. Una scuola dove la cura sia cultura, condivisa, autentica, sistemica.
Perché educare è un atto d’amore. E ogni amore, per essere autentico, ha bisogno di radici sane. Radici che affondano nella comprensione, nella dignità, nel rispetto. È da lì che può nascere tutto il resto.
La mente che insegna
L’attività didattica non si limita alla lezione frontale. Dietro ogni azione educativa si attivano complessi processi neurocognitivi che coinvolgono attenzione selettiva, memoria a breve e lungo termine, empatia, autoregolazione emotiva, flessibilità cognitiva e pensiero divergente. Il docente è chiamato continuamente a prendere decisioni rapide, a interpretare i segnali verbali e non verbali degli studenti, a rielaborare strategie di intervento in tempo reale, mantenendo al contempo un clima relazionale positivo e motivante. Le neuroscienze cognitive e affettive hanno dimostrato come lo stress cronico interferisca pesantemente con tali funzioni esecutive, riducendo la capacità di concentrazione, inibendo il pensiero creativo e aumentando la reattività emotiva.
La corteccia prefrontale, responsabile delle decisioni ponderate, della pianificazione e della regolazione del comportamento, viene messa in difficoltà da un’eccessiva produzione di cortisolo, mentre l’amigdala, centro delle emozioni e delle reazioni impulsive, si attiva in modo sproporzionato, portando a risposte difensive o disfunzionali. Questo squilibrio neurofisiologico può tradursi in difficoltà nel gestire i conflitti, nell’empatia verso gli studenti, nella gestione del tempo e nell’efficacia comunicativa. Non è un caso che gli insegnanti in burnout riferiscano senso di inadeguatezza, distacco emotivo, apatia e calo motivazionale, sintomi che compromettono la qualità della didattica e la soddisfazione professionale.
La mente che insegna ha bisogno di essere nutrita, ascoltata, rispettata nei suoi limiti, affiancata nella crescita continua. Solo attraverso una consapevolezza dei propri processi cognitivi, una formazione continua centrata anche sul benessere psicologico e una costante attenzione alla propria salute mentale, è possibile mantenere viva la passione educativa. Favorire pratiche riflessive, supervisioni pedagogiche, momenti di autoanalisi e confronto tra pari, può contribuire a ridurre la distanza tra mente e didattica, restituendo centralità alla dimensione umana dell’insegnamento. La salute mentale del docente non è un lusso individuale, ma una precondizione per una scuola che vuole essere spazio di crescita autentica per tutti.
L’educazione come relazione neurobiologica
Ogni relazione educativa attiva un dialogo tra cervelli. Le emozioni, i gesti, i toni di voce, gli sguardi generano micro-scariche neuronali capaci di modellare le connessioni sinaptiche e di influenzare i processi di apprendimento, attivando dinamiche di risonanza interiore che plasmano la costruzione dell’identità e dell’autostima degli studenti. Daniel Siegel parla di “integrazione interpersonale” per descrivere la capacità dell’essere umano di sviluppare la propria identità in relazione agli altri, suggerendo che le relazioni significative contribuiscono alla formazione di circuiti neurali stabili, fondamentali per la regolazione affettiva e cognitiva.
I neuroni specchio, scoperti da Rizzolatti e il suo team, mostrano come l’essere umano sia naturalmente predisposto all’imitazione e alla condivisione emotiva, meccanismi alla base dell’apprendimento per osservazione e della capacità di immedesimazione. Un docente consapevole del proprio mondo emotivo, capace di riconoscere i segnali del corpo, regolare la propria attivazione neurofisiologica e offrire una presenza calma e centrata, può diventare un potente regolatore esterno per gli studenti, favorendo la co-regolazione emotiva, la resilienza e lo sviluppo delle funzioni esecutive.
La relazione educativa non è solo un mezzo, ma il cuore stesso del processo formativo. L’incontro tra docente e studente attiva un processo bidirezionale in cui entrambi i sistemi nervosi entrano in comunicazione, si sintonizzano, si influenzano a vicenda. Le neuroscienze ci ricordano che l’apprendimento significativo avviene in ambienti emotivamente sicuri, dove il docente rappresenta un punto di riferimento stabile e accogliente, capace di offrire contenimento emotivo, autenticità e rispetto incondizionato. Da qui l’importanza di curare le relazioni, investire nella comunicazione empatica, creare un clima scolastico fondato sulla fiducia e sulla reciprocità. Ogni parola non detta, ogni sguardo sfuggente, ogni gesto svalutante può lasciare tracce nel cervello di un adolescente in formazione, incidendo sulla percezione di sé, sul senso di autoefficacia e sul desiderio di apprendere. Viceversa, uno sguardo autentico, una parola gentile, un gesto di attenzione possono attivare nel cervello circuiti di gratificazione, rafforzando la motivazione e il senso di appartenenza. La qualità della relazione educativa non è, dunque, accessoria, ma essenziale, e ogni insegnante dovrebbe essere formato e sostenuto nella sua capacità di coltivarla con consapevolezza e competenza.
Il corpo docente e la mente in equilibrio
La dicotomia mente-corpo ha ormai perso ogni fondamento scientifico. Il cervello è un organo corporeo, intimamente legato al funzionamento di tutto il corpo, profondamente influenzato dallo stile di vita, dall’attività fisica, dall’alimentazione, dalla qualità del sonno e dai livelli di stress. Gli studi di neurobiologia, psiconeuroendocrinoimmunologia e neuroscienze cognitive confermano che la salute mentale dipende anche da fattori corporei come il microbiota intestinale, il ritmo circadiano, la postura, la respirazione e il movimento regolare. Il corpo agisce come regolatore e contenitore delle emozioni: uno squilibrio corporeo può tradursi in disattenzione, affaticamento cognitivo e sbalzi emotivi che incidono negativamente sul lavoro del docente.
I docenti, spesso immersi in routine faticose, in ambienti scolastici rumorosi e saturi di stimoli, tendono a trascurare il corpo, dimenticando che esso è il veicolo attraverso cui passa ogni esperienza educativa, il primo mediatore tra il mondo esterno e l’interiorità. Il corpo trasmette coerenza o incoerenza, accoglienza o chiusura, presenza o distrazione. Promuovere attività di rilassamento muscolare, stretching consapevole, ginnastica dolce, respirazione diaframmatica e tecniche di grounding può avere effetti tangibili e misurabili sul benessere neuropsicologico degli insegnanti.
Anche piccoli cambiamenti quotidiani, come camminare all’aperto per dieci minuti tra le lezioni, fare pause attive, curare la propria idratazione o mangiare alimenti ricchi di triptofano e omega-3, possono stimolare i circuiti cerebrali legati alla dopamina, alla serotonina e all’ossitocina, contribuendo a un umore più stabile, a una maggiore energia mentale e a una più alta tolleranza allo stress. Inoltre, esistono pratiche somatiche come lo yoga, la meditazione, la danza educativa, il tai chi e il training autogeno che, se integrate nella routine scolastica anche in brevi sessioni mattutine o pomeridiane, possono contribuire a creare una scuola più centrata sul benessere integrale e sulla prevenzione attiva del disagio psicofisico.
Valorizzare il corpo docente significa, dunque, anche letteralmente valorizzarne il corpo, restituire dignità alla sua presenza, renderlo spazio di ascolto, consapevolezza e cura, in grado di sostenere la complessità delle relazioni educative e di generare, attraverso il proprio esempio, una cultura del benessere che si diffonde tra le mura scolastiche.
Il rischio dell’usura emotiva
L’insegnamento è tra le professioni più esposte all’usura emotiva, una forma di logoramento psicologico profondo che non si limita a una stanchezza passeggera ma compromette la salute psichica e il senso di identità del docente. La gestione della classe, il carico burocratico crescente, le aspettative talvolta irrealistiche da parte delle famiglie, le dinamiche conflittuali con colleghi o dirigenti, e le continue richieste di aggiornamento e innovazione formano un terreno fertile per la sindrome da burnout. Questo stato di esaurimento psico-fisico, ben descritto anche dal punto di vista neurobiologico, comporta uno squilibrio persistente tra la corteccia prefrontale e il sistema limbico. In presenza di stress prolungato, il cervello del docente funziona in “modalità sopravvivenza”, con l’amigdala iperattivata e la corteccia razionale inibita, con conseguente calo dell’empatia, difficoltà di memoria a breve termine, perdita di lucidità decisionale, irritabilità e isolamento emotivo.
L’usura emotiva colpisce anche la capacità di provare gioia, di celebrare i successi, di nutrire la speranza educativa, e porta spesso a un senso di svuotamento che rende difficile trovare significato nella propria missione professionale. Tale stato incide direttamente sulla qualità della relazione educativa e sul rendimento scolastico degli studenti, generando una spirale regressiva difficile da interrompere.
La cura dell’insegnante deve, dunque, partire dalla prevenzione, da un cambio di paradigma che riconosca la centralità del benessere docente nel progetto scolastico. Le istituzioni scolastiche dovrebbero adottare modelli organizzativi che favoriscano il benessere, riducano il carico superfluo e offrano supporti psicologici accessibili e non stigmatizzanti. È fondamentale creare spazi di ascolto, promuovere la cultura del feedback costruttivo, formare figure di tutoraggio o mentoring emotivo tra pari. Sarebbe auspicabile inserire nella formazione iniziale e continua dei futuri docenti moduli specifici sulle competenze di autogestione emotiva, di resilienza neuropsicologica, di mindfulness applicata alla didattica e di conoscenze neuroscientifiche di base, per renderli più consapevoli, più protetti e più preparati ad affrontare con lucidità e forza interiore le sfide complesse della professione educativa del presente.
Consigli pratici per una cura sostenibile
Curare sé stessi non significa adottare pratiche complesse o incompatibili con la vita scolastica. Al contrario, l’autocura inizia da piccoli gesti quotidiani, sostenibili, autentici e personalizzabili, che possono essere facilmente integrati nella routine scolastica, senza sensi di colpa né aspettative irrealistiche. Svegliarsi ogni mattina con un pensiero di gratitudine, prendersi dieci minuti di pausa senza dispositivi elettronici, ascoltare musica rilassante prima di dormire o condividere con un collega una riflessione autentica sono strategie semplici ma potenti, che attivano circuiti di dopamina e rafforzano il senso di connessione con sé e con l’altro.
Tenere un diario delle emozioni, anche solo per qualche minuto al giorno, aiuta a sviluppare consapevolezza metacognitiva e a riconoscere i propri bisogni prima che si traducano in disagio. Il journaling, ovvero la scrittura riflessiva quotidiana, ha dimostrato di ridurre i livelli di cortisolo e migliorare la regolazione affettiva, offrendo uno spazio mentale per rielaborare esperienze difficili e coltivare gratitudine e auto-compassione.
Anche la lettura di testi ispiranti, l’ascolto di podcast educativi, la visione di video motivazionali o la partecipazione a cerchi di parola e gruppi di auto-mutuo aiuto può rigenerare il senso di appartenenza e ridare dignità alla dimensione collettiva della cura. Dedicare del tempo alla natura, spegnere il cellulare per almeno un’ora al giorno, prendersi cura della propria respirazione, imparare a dire “no” senza senso di colpa e recuperare il diritto al silenzio sono azioni tanto semplici quanto rivoluzionarie.
L’autocura non è un percorso estetico o superficiale, ma una forma di resistenza quotidiana che permette all’insegnante di riappropriarsi della propria umanità. È un atto politico e pedagogico che restituisce centralità alla persona e alla sua integrità psico-corporea. Tuttavia, questo percorso non può essere lasciato alla sola iniziativa individuale. Deve e può essere sostenuto da una cultura scolastica condivisa, da leadership capaci di ascolto, da spazi protetti per il confronto tra pari. Solo una comunità educante che riconosce la vulnerabilità come forza e la cura come atto professionale può generare cambiamenti profondi e duraturi.
Educare con il cervello intero
Le neuroscienze ci invitano a superare ogni approccio frammentario e meccanicistico all’insegnamento. L’insegnante non è solo un tecnico della conoscenza, chiamato a trasmettere contenuti disciplinari, ma un essere umano completo, con una mente incarnata, una storia personale, una sensibilità unica e un mondo interiore in costante evoluzione. Educare con il cervello intero significa valorizzare la sinergia tra emisfero sinistro e destro, tra logica ed emozione, tra conoscenze formali e saggezza esperienziale, tra autorità istituzionale e autorevolezza relazionale.
Significa, inoltre, accettare i propri limiti senza colpevolizzarsi, imparare a chiedere aiuto, coltivare l’umiltà del dubbio e la forza della vulnerabilità, e soprattutto riconoscere che l’errore non è una deviazione dal percorso ma un passaggio necessario nella crescita professionale ed esistenziale. Insegnare con il cervello intero implica sviluppare un’intelligenza integrata, in cui la capacità di analisi si accompagna all’empatia, la fermezza si unisce alla tenerezza, e il sapere si trasforma in sapienza relazionale.
Una scuola davvero educativa è quella che permette agli insegnanti di essere se stessi, di sbagliare, di cambiare, di essere in cammino, senza dover continuamente indossare maschere di infallibilità o rinunciare alla propria autenticità. Solo allora gli studenti potranno crescere in un ambiente autentico e stimolante, dove apprendere non è solo un obbligo ma una scoperta continua di senso, dove la curiosità è più importante della performance e il percorso conta quanto la meta. L’intelligenza emotiva, la consapevolezza corporea, l’empatia, la coerenza e l’autenticità diventano allora strumenti didattici tanto quanto un libro di testo, una lavagna o una verifica scritta. L’educazione del futuro parte dalla riconnessione con l’umano, dalla capacità di abitare la complessità con presenza e coraggio, restituendo al gesto dell’insegnare la sua profonda dignità antropologica e trasformativa.
Prendersi cura del benessere dei docenti non è un privilegio, ma un dovere educativo e istituzionale. Ogni insegnante sereno, sostenuto e ascoltato diventa una fonte di luce per gli studenti. Le neuroscienze ci offrono oggi una mappa preziosa per orientare il cambiamento ricordandoci che una scuola che vuole innovare deve partire dalla persona, dal suo cervello, dalle sue emozioni, dai suoi bisogni reali. Non è più tempo di resistere, ma di rigenerare. E la rigenerazione parte sempre dalla cura. In fondo, insegnare è prendersi cura dell’altro. Ma per farlo, bisogna prima imparare a prendersi cura di sé. Una scuola che accoglie, ascolta e sostiene i suoi docenti è una scuola che educa con autenticità. Solo così potremo costruire una società più empatica, più consapevole e, soprattutto, più umana.
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