Maturità 2019: considerazioni sul nuovo esame di Stato

L’anno scolastico 2018/19 è partito in un contesto di forte cambiamento politico, legato all’ultima tornata elettorale e all’inedito accordo, per l’Italia e per l’Europa, tra due forze politiche che si dichiaravano antisistema, antieuropeiste e a forte caratterizzazione populista. Tale accordo, nato da una lunga partonogenesi, aveva finalmente portato alla nascita del governo, mettendo insieme culture e opzioni politiche spesso marcatamente divergenti tra loro (tasse, giustizia, migranti, reddito di cittadinanza, ecc.). Ne venne fuori un contratto che, pur nella sua radicalità di facciata, quasi nulla diceva su scuola, università e ricerca che, evidentemente, non costituivano le priorità di intervento né di uno schieramento né dell’altro. Tuttavia, il clima di incertezza presto si diffondeva anche nelle scuole italiane, attraverso interviste e annunci da parte del Ministro Bussetti che lasciavano intendere quali sarebbero state le linee programmatiche del MIUR: ridurre il peso dell’Alternanza Scuola Lavoro, eliminare l’obbligatorietà delle prove Invalsi per l’accesso all’esame finale, l’introduzione di un nuovo sistema di calcolo per l’attribuzione del punteggio finale, l’eliminazione del compito di storia tra le opzioni previste nella prova scritta di italiano. La scuola cambierà, quindi. Ma quando, con quali indicazioni concrete? L’incertezza derivava soprattutto dalla mancanza di una nuova normativa di riferimento e dalla confusione sui tempi di attuazione. Da questo punto di vista tutti lo sanno: l’esame di Stato rappresenta il coronamento di un percorso formativo durato cinque anni e costituisce l’ultimo anello di una catena di azioni, esperienze, apprendimenti che hanno impegnato un numero enorme di insegnanti, studenti e famiglie. Proprio della nuovo esame di maturità abbiamo parlato nel numero di dicembre di Tuttoscuola in un articolo a firma di Gianni Orecchioni, Dirigente Scolastico dell’I.I.S. “Da Vinci-De Giorgio” di Lanciano.

Se studenti e studentesse si sono preparati, in un percorso pluriennale a fare determinate cose, non è bello e neanche giusto per loro dover mettere tra parentesi il lungo lavoro preparatorio condotto fino alla metà dell’ultimo anno di studi superiori per decisioni politiche che, pur legittime, devono trovare attuazione in modo graduale, con il coinvolgimento dei docenti, dei dirigenti e di tutto il mondo della scuola.

Il caso dell’Alternanza Scuola Lavoro è emblematico: molti studenti in Italia hanno già raggiunto l’obiettivo delle 400 ore (negli istituti tecnici e professionali) e delle 200 ore (nel caso dei licei). Dire oggi che nel nuovo esame di Stato non vi debba più essere un adeguato riconoscimento di quel lungo cammino lascia perplessi.

L’Alternanza Scuola Lavoro è presente nel PTOF di ogni scuola, che ha sviluppato in questi anni programmi, intese, accordi, convenzioni con grande impegno e fatica. È certamente legittimo avere un’altra idea di scuola, ma per far sì che questa si possa realizzare, bisognerebbe partire almeno con una programmazione triennale per evitare che i tempi della formazione, inquadrati nel piano triennale dell’offerta formativa (PTOF) di ciascuna scuola vadano in collisione con la volontà della politica di agire con rapidità secondo il motto del tutto e subito. Un avvicendamento di uomini e di incarichi lo si può fare velocemente, mentre il mondo della scuola lavora sui tempi lunghi della formazione, che deve avere una sua coerenza e continuità al fine di poter raggiungere gli obiettivi indicati nei PECUP.

Siamo lontani da quanto avviene nei paesi a lunga tradizione democratica, in cui le scelte di politica scolastica sono demandate a tecnici specializzati ed esperti del mondo della ricerca pedagogica che studiano, analizzano, trovano soluzioni, sottraendo il mondo della scuola alla sterile e spesso improvvisata querelle politica. C’è bisogno di serenità, di linee guida fatte per durare nel tempo, perché frutto di un lavoro scientifico serio, attendibile e condiviso. Certo, qui il richiamo non è solo alla politica, ma anche a un’accademia che è chiamata a fare ricerca sul campo e a misurarsi in modo costante e programmatico con il mondo della scuola e con quello dei suoi referenti politico-istituzionali.

C’è poi da chiedersi altre cose. Se, per esempio, abbia ancora senso un esame di Stato dove tutti sono promossi malgrado lo scadimento generale della preparazione degli studenti. E chiedersi se, allora, non sia più importante analizzare, attraverso la ricerca sperimentale, quali modelli didattici possano dare migliori performance negli esiti degli apprendimenti dei nostri studenti, piuttosto che affidarsi a mode del momento o a un uso acritico delle nuove tecnologie, promosse nelle scuole di ogni ordine e grado, dimenticando quanto conti, oggi più di ieri, la capacità di ascolto, il valore della testimonianza, la capacità relazionale del docente, la dimensione dell’empatia, la capacità di affabulare e scuotere le coscienze di ragazzi e ragazze sempre più alla ricerca di valori di riferimento in un’epoca caratterizzata dal solipsismo e dall’anomia.

Ci si potrebbe chiedere quale sia il modo più appropriato per valutare le competenze dei nostri studenti e delle nostre studentesse e se per tale compito la formula dell’esame finale, al di là delle scelte sulla composizione delle commissioni, sui punti da attribuire alle singole prove, ecc.,  non sia ormai inadeguata, perché tutta orientata sull’accertamento tradizionale e mnemonico dei saperi disciplinari come se in questi anni nella scuola nulla fosse accaduto. C’è da chiedersi anche perché i nostri studenti debbano diplomarsi a diciannove anni mentre dappertutto i loro coetanei terminano gli studi con un anno di anticipo. Se l’ultimo anno di scuola non debba avere un aspetto più marcatamente orientante data la scarsa tenuta dei nostri studenti all’interno dei percorsi universitari.

Di questo abbiamo parlato in maniera più ampia nel numero di dicembre di Tuttoscuola.

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