Lo psicodramma della DaD/DDI

All’inizio del lockdown scolastico, prolungatosi nel nostro Paese per il tempo record di sei mesi, la didattica a distanza (DaD) è stata accolta con interesse e con una certa benevolenza dal mondo della scuola, che ha scoperto, con sorpresa di molti, di possedere al proprio interno rilevanti risorse umane preparate a gestire la novità e una diffusa disponibilità verso le nuove tecnologie.

Poi hanno incominciato ad emergere i problemi: la connettività a volte scadente o assente, la difficoltà di conciliare lo smart-learning dei figli con lo smartworking dei genitori, soprattutto nelle case con più ragazzi studenti, i dubbi sulle modalità di valutazione, certo non sciolti dalle indicazioni ministeriali, e poi la crescente consapevolezza dell’aumento delle disuguaglianze dovuto alla scarsa capacità di assistere e stimolare gli alunni da parte delle famiglie più disagiate dal punto di vista socio-economico e culturale di provenienza. Per non parlare della condizione di quasi abbandono degli alunni con disabilità certificate.

A tutte queste difficoltà non è stata data in questi mesi la risposta che secondo noi sarebbe stata quella più lungimirante: corsi di formazione a tappeto per insegnanti e anche per genitori, fornitura alle scuole, ma anche alle famiglie e agli stessi studenti, di adeguate attrezzature tecnologiche e devices, know-how organizzativo sulla ridefinizione degli spazi e dei tempi in vista della ripresa della didattica in presenza da integrare con quella a distanza, poi (opportunamente, almeno in questo caso) trasformata in DDI (Didattica Digitale Integrata).

Ben poco di questo è stato fatto, mentre la DaD, già vista fin dall’inizio con diffidente cautela dai sindacati, è finita progressivamente sul banco degli imputati, fino a essere quasi criminalizzata. Il segnale della svolta è stato dato da un articolo di Alberto Asor Rosa pubblicato sulla Repubblica il 7 maggio 2020, intitolato “Elogio della classe”, come subito notato da Tuttoscuola. Poi è stato un coro, guidato dai sindacati, di appelli a ritornare alla didattica “in presenza e in sicurezza”, mentre il mondo dei pedagogisti si è diviso sull’argomento.

Eppure c’è chi ha le idee chiare in materia. Roberto Maragliano, docente di tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento all’università di Roma 3, da decenni profeta disarmato dell’e-learning, cui ha dedicato decine di libri e centinaia di articoli, spiega bene che quello della contrapposizione tra didattica in presenza e a distanza è un falso dilemma perché il futuro dell’educazione, in parte già iniziato, sarà comunque multimediale (anche in presenza), e sempre più condizionato dalle tecnologie di rete e onlife, per usare l’espressione coniata da Luciano Floridi: qualcosa di profondamente diverso dal modello monomediale, centrato sul libro stampato e sulle scuole-caserma, che ha caratterizzato l’insegnamento e l’apprendimento negli ultimi due secoli.

Di questo si dovrebbe discutere, di metodologie didattiche realmente innovative, non di quanto sia insostituibile la didattica in presenza (magari solo trasmissiva) e di quanto sia “cattiva” quella a distanza (magari anch’essa trasmissiva perché realizzata da docenti non formati).