La ferita invisibile dei bimbi nel bosco
La recente vicenda dei bambini prelevati dalla loro famiglia che viveva in un bosco, e successivamente allontanati dai genitori, ha riaperto un dibattito antico e complesso che tutti i tribunali dei minori affrontano quotidianamente: come proteggere i bambini senza recidere legami affettivi fondamentali? Se in premessa ribadiamo che la decisione del Tribunale va sempre rispettata perché fondata su elementi che solo l’autorità giudiziaria può valutare pienamente, è pur vero che emergono criticità e interrogativi che lasciano quanto meno perplessi. Dal punto di vista pedagogico, infatti, occorre interrogarsi su un principio che la ricerca internazionale ribadisce da decenni: la separazione dai genitori rappresenta, per un bambino, l’esperienza più traumatica dopo la perdita di entrambi.
Nella storia dei bambini allontanati dai genitori che sembravano più attaccati ai loro principi di vita fondata sulla natura, lontana dal mondo urbanizzato, non si discute la necessità di intervenire: ogni minore ha diritto alla salute, alla sicurezza, alla socializzazione, alla scolarizzazione. Ciò che appare discutibile, in una prospettiva educativa, è lo strumento adottato. Prima di arrivare all’allontanamento dei piccoli dai genitori, probabilmente, con un po’ più di lungimiranza, sarebbe stato possibile — e pedagogicamente auspicabile — intervenire sulla famiglia, su entrambi i genitori, accompagnandoli con percorsi intensivi e vincolanti di sostegno, formazione e responsabilizzazione, verso la riscoperta che il legame con i figli e l’educazione dei figli è fatta di tanto altro rispetto a ciò che loro offrivano. Si tratta di un approccio che molti servizi territoriali in Italia hanno già sperimentato con successo: aiutare i genitori a diventare parte della soluzione, non del problema. Questo è un approccio che in molte scuole di primo grado viene portato avanti da dirigenti e docenti che comprendono che la famiglia è un unicum che non va scisso: l’intervento di successo a favore di un minore è quello che coinvolge l’intero nucleo famigliare.
La scelta di togliere i bambini da un contesto certamente complesso e inadeguato è spesso motivata da finalità positive, ma la domanda essenziale è un’altra: quali effetti produce quel trauma? La risposta degli studiosi è chiara: l’interruzione improvvisa della relazione di attaccamento può lasciare esiti più profondi e duraturi rispetto ai ritardi nella socializzazione o alla mancanza di frequenza scolastica. La scuola si recupera. Le relazioni con i pari si costruiscono. Le competenze si apprendono. Il legame primario, invece, quando viene reciso, lascia una frattura che nessun intervento educativo può cancellare completamente.
Nella storia di questi bambini ciò che colpisce non è solo la precarietà del contesto abitativo, ma soprattutto il fatto che fino ad oggi sono stati in contatto solo con i loro genitori e mai ne sono stati separati. La continuità affettiva era l’unico elemento stabile del loro mondo. Rompere quel legame, anche temporaneamente, significa esporli a un dolore che non sanno nominare e che difficilmente potranno elaborare a questa età. Per molti esperti è una forma di “maltrattamento involontario”: nasce dalla volontà di proteggere, ma genera comunque sofferenza, non sollievo.
Proteggere i minori significa anche immaginare interventi graduali, meno invasivi, più orientati al rafforzamento della famiglia che alla sua sostituzione. L’allontanamento dovrebbe essere l’ultima ratio, non la prima soluzione. Accompagnare, sostenere, guidare, obbligare la famiglia se necessario: sono tutte strade più complesse e lente, ma garantiscono un diritto fondamentale dei bambini, spesso dimenticato nei dibattiti pubblici: il diritto a crescere con i propri genitori, quando ciò sia possibile e recuperabile.
Non si tratta qui di negare il valore della socializzazione o dell’istruzione, né tantomeno di minimizzare eventuali carenze educative. Si tratta di fissare una gerarchia dei bisogni: prima la sicurezza affettiva, poi tutto il resto. Perché un bambino può imparare a leggere anche più tardi, può recuperare le competenze sociali, può mettersi al passo con i coetanei. Ma non potrà mai ricostruire, senza esiti profondi, ciò che oggi rischia di essere spezzato: il legame originario che lo ha fatto sentire al mondo.
In casi come questo non basta chiedersi cosa sia legale o tecnicamente corretto: occorre chiedersi cosa sia davvero educativo. E l’educazione — quando guarda al benessere autentico dei bambini — ci ricorda che la cura non è mai separazione, se la separazione può essere evitata con un lavoro competente e rigoroso sulla famiglia.
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