La difesa contro l’educativo digitale

Di Roberto Franchini
Pubblichiamo di seguito una nuova parte del documento di Franchini “Una crisi da non sprecare. Partire, invece che ri-partire”.

La scuola italiana prima del COVID-19 stava strenuamente resistendo al cambiamento, arroccata sul suo tradizionale compito di alfabetizzazione, e dunque incline a difendersi dai pericoli del digitale, salendo sui bastioni della disciplina e del presunto dovere di trasmissione culturale. I nuovi media faticavano ad essere accolti nel loro potenziale educativo, fecondo di possibili sviluppi sul piano della flessibilità e della personalizzazione.

Naturalmente ogni scuola e ogni docente esprime un consenso sulla linea dei principi pedagogici generali: valori come la personalizzazione, l’attenzione a tutte le dimensioni del fanciullo e l’allargamento del curricolo ad una gamma ampia di competenze, comprendenti anche quelle civiche e socio-emotive, non sono in discussione. Al contempo, tuttavia, esse rischiano di rimanere parole vuote, se non sono accompagnate da una coerente riflessione metodologica, che ne individui le possibili traduzioni sul piano della prassi, e dunque considerando inevitabilmente anche il contesto ove i processi educativi avvengono.

La battaglia non è sui principi pedagogici, ma sulla metodologia appropriata per conseguirli. Tutti gli attori trovano intesa sui valori, ma quando si tratta di toccare il meccanismo, allora sorgono una congerie di obiezioni e di problemi da affrontare. In realtà, una visione di scuola adatta al contesto e attenta all’evoluzione non solo dei media, ma anche dei bisogni educativi, potrebbe paradossalmente costituire la via d’uscita proprio a quei problemi che vengono segnalati come impedimento ad essa. Insomma, probabilmente dietro alla resistenza c’è di più di una sommatoria di questioni da affrontare: semplicemente, mentre adottare una singola metodologia può essere un’operazione abbastanza lineare, entrare in un nuovo paradigma è tutt’altra cosa.

L’educativo cartaceo sino ai giorni nostri ha consolidato un modello organizzativo di scuola, fatto di cattedre, banchi, libri, penne, registri, valutazioni numeriche, orari dettagliati e compiti a casa,messo a punto dai gesuitie poi definitivamente sancito in epoca di Rivoluzione Industriale, in quanto opportunamente individuato come strumento efficace per portare tutti gli studenti ad uno standard minimo di conoscenze, mediante l’introduzione dell’obbligo di istruzione.

Tutto questo, nel tempo, è diventato una sorta di grammatica di scuola[1], ovvero un insieme di regole e di ruoli che guida il funzionamento dell’istituzione scolastica, in modo per così dire implicito e non detto. Né la grammatica della scuola, né la grammatica del linguaggio devono essere consapevolmente comprese per funzionare senza intoppi. In effetti, gran parte della grammatica della scuola è diventata così ben consolidata che in genere è data per scontata come lo sono le scuole stesse. È la deviazione dalla pratica abituale nella scuola (o dalla pratica abituale del parlare) che attira l’attenzione[2].

Già l’avvento delle tecnologie costituiva una prima potenziale (salutare?) minaccia per questa grammatica. Cosa succede alla scuola quando il tradizionale compito di trasmettere le conoscenze è messo in discussione dalla vorticosa società dell’informazione? Il modo tradizionale di organizzare l’istruzione è adeguato ai giovani di oggi, i cosiddetti nativi digitali? Che tipo di autorità può avere il docente, quando l’informazione di cui era fonte esclusiva oggi è accessibile in modo straordinariamente rapido e gratuito? Possiamo ancora ragionare sul concetto di standard educativo, quando il processo storico di alfabetizzazione di massa è da intendersi concluso, mentre altre questioni vanno imponendosi, come ad esempio la demotivazione, la dispersione, l’analfabetismo emotivo e critico e la strage del talento? Non sarebbe meglio virare dal concetto di standard a quelli, pedagogicamente più densi, di personalizzazione e di educazione alla cittadinanza?

Come afferma la Raccomandazione Europea sulla modernizzazione dei sistemi di istruzione (2018), “la scuola,  per tradizione luogo di acquisizione del sapere, è oggi affiancata da numerose altre fonti di informazioni accessibili. Le tecnologie moderne hanno liberato l’istruzione, aperto opportunità per attività educative multidimensionali e creato uno spazio educativo. Una sfida importante consiste nel rendere la scuola il luogo più interessante di questo spazio. Il ruolo dei sistemi di istruzione è quello di formare una persona completa, che si realizzi in ambito professionale, sociale, culturale e civico in un ambiente diversificato e globale”.

La Raccomandazione sinteticamente richiama un cambiamento sia negli obiettivi (dai contenuti alle competenze, dall’istruzione all’educazione) che nel metodo (attività educative multidimensionali). Queste istanze erano già vive prima del Coronavirus, anche se molto spesso temute e rimosse.  Oggi tuttavia c’è un’altra pressante questione, che mina alla base l’ordinaria grammatica della scuola: i giovani possono tornare nelle aule alveare, stretti gli uni di fianco agli altri in spazi angusti, predisposti per il classico schema della lezione e dell’esercizio individuale controllato?

La risposta è no, almeno nell’immediato. Questo però non vuol dire che la didattica a distanza sia la soluzione definitiva: il Tofu non è formaggio, come ha ironicamente commentato Yong Zhao sul suo Blog[3]. La didattica a distanza sta certamente aiutando il mondo della scuola a gestire una crisi, fornendo un modo temporaneo e alternativo di gestire i processi formativi, ma certamente prima o poi gli studenti torneranno nello spazio educativo, godendo degli innumerevoli vantaggi di una relazione reale e non virtuale.

Leggi tutti gli articoli relativi al documento di Franchini, “Una crisi da non sprecare. Partire, invece che ri-partire”, pubblicate su Tuttoscuola

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[1] Tyack, D., & Tobin, W. (1994), The Grammar” of Schooling: Why Has it Been so Hard to Change? American Educational Research Journal, 31(3), 453-479.
[2] Ibi, p. 454
[3] Cfr. https://nepc.colorado.edu/blog/tofu-not-cheese, citato da Associazione Docenti e Dirigenti Scolastici italiani, https://adiscuola.it/pubblicazioni/il-tofu-non-e-formaggio-reinventare-linsegnamento-durante-il-covid-19-ripensare-il-curriculum/, pagina visitata il 29 aprile 2020