Il buco nero in cui cadono i giovani
C’è un buco nero nel nostro Paese, ed è quello dove cadono da anni migliaia di ragazzi diplomati nei tecnici e nei professionali che si ritrovano a spasso perché ciò che hanno imparato a scuola non è utile per lavorare in azienda. In questo buco nero i ragazzi non ci si infilano da soli: li conduce dritti lì un percorso scolastico avulso dal mondo del lavoro.
Ora che la riforma dei professionali e dei tecnici, diventata legge qualche giorno fa, punta a colmare questo buco nero, a far sì che i ragazzi escano da scuola con le competenze necessarie per trovare lavoro, piovono accuse di varia natura, dalla “privatizzazione della scuola pubblica”, alla “scuola ridotta a luogo per sfornare lavoratori”, da “l’azienda potrà avvalersi di risorse continue da parte delle scuole”, fino ai “percorsi indirizzati verso le classi sociali più svantaggiate”. Commenti quindi che non sono entrati nel merito della Riforma ma che si sono limitati a ideologizzarne la portata, ovviamente riportati nella Camera dei Deputati dai partiti che si oppongono a quello del ministro. La domanda sorge spontanea: quando c’è di mezzo il futuro dei giovani, non sarebbe buona cosa uscire dalla contrapposizione politica forzata per restare sul piano dell’obiettività e della necessità?
E’ chiaro che chi vuole studiare discipline teoriche sceglie il liceo. Ma chi punta ad entrare subito nel mercato del lavoro e si iscrive ad un tecnico o ad un professionale perché non dovrebbe avere la formazione necessaria per lavorare? E’un favore alle aziende o un diritto dei ragazzi quello di lavorare? Tra l’altro, non ci sono molte strade da percorrere, non ci sono alternative al sistema impostato nella riforma Valditara. Per superare il divario fra le competenze richieste dalle aziende e la preparazione dei diplomati – e quindi per diminuire il tasso di disoccupazione e garantire la crescita e la competitività del sistema produttivo italiano – c’è solo un modo: mettere in campo sinergie tra mondo delle aziende, scuole e istituzioni. Allora perché le aziende private, nelle quali aspira a lavorare la maggior parte degli italiani – considerato che lo stipendio pubblico, da quando è entrato l’euro, ha perso quell’attrattività che aveva negli anni Ottanta – devono essere considerate nemiche della scuola pubblica?
La presa di posizione di alcuni partiti su come i giovani dovrebbero cercare lavoro è surreale almeno da tre diversi punti di vista. Il primo è l’interesse che i giovani hanno nei confronti delle ideologie partitiche: basta vedere le percentuali dei ragazzi e delle ragazze iscritti ai partiti. Ma è evidente anche solo dando uno sguardo alla composizione del Parlamento: solo 65 Parlamentari sono under 40 anni, solo 3 sono nella fascia d’età 25-29 anni (lo 0.75%). Non va meglio se guardiamo ai sindaci: under35 sono solo il 3.7%, percentuale che scende a zero per i comuni capoluogo.
Il secondo punto di vista è quello europeo. In Germania, patria per eccellenza sia della filosofia che della formazione tecnico pratica, 900mila ragazzi ogni anno scelgono la formazione professionalizzante che è divisa in tre sistemi: il Fachhochschule, sistema di 3-4 anni di cui due di stage in un’azienda; il Berufsakademie dove il 50% del percorso formativo è di apprendimento pratico; le Fachschule, un livello intermedio tra il diploma finale di apprendistato e i titoli superiori. In Francia, si può scegliere tra i tecnici superiori (STS) – 88 percorsi di studi ed un programma scelto in comune accordo tra le aziende e i responsabili della didattica – e l’istituto universitario tecnologico (IUT) con 25 tipologie di percorsi professionalizzanti ed una formazione teorica superiore che consente il passaggio ad una laurea triennale. In Svizzera ci sono le SUP (Scuole Universitarie Professionali), con un tipo di formazione più pratica e docenti che arrivano dalle aziende, e le ASP (alte scuole pedagogiche destinate alla formazione dei docenti), più teoriche, entrambi 3+2.
Non è questa la direzione in cui sta andando l’Italia? Quattro anni al posto di cinque, con tre scelte dopo il diploma: accesso diretto ai corsi degli ITS Academy, all’università, o direttamente al mondo del lavoro. In più ci saranno i campus per collegare istituti tecnici e professionali, ITS Academy e centri di formazione professionale e garantire una maggiore interazione con il mondo del lavoro.
Il terzo punto di vista va oltre l’Europa: avvicinare la scuola al lavoro e il lavoro alla scuola è una emergenza talmente grande e sentita in tutto il mondo che negli anni passati è intervenuta persino l’Unicef, con Junior Achievement, la più vasta organizzazione no profit al mondo dedicata all’educazione economico-imprenditoriale e all’orientamento nella scuola che coinvolge oltre 465mila volontari d’azienda per raggiungere oltre dieci milioni di studenti in 122 Paesi (nominata per il premio Nobel per la Pace 2022, 2023 e 2024). Dal 2002, in Italia, ha costruito un network di professionisti d’impresa, fondazioni e Istituzioni, educatori e insegnanti che, secondo logiche di responsabilità sociale e volontariato, forniscono strumenti e metodi didattici pratici e concreti.
Infine, il quarto punto di vista: è strumentale pensare che una scuola prepari al lavoro in senso esclusivamente tecnico. Le capacità trasversali e le competenze organizzative fanno parte del bagaglio scolastico dei tecnici e dei professionali, cosi come le discipline fondamentali ed i comportamenti di innovazione continua, l’attenzione alla qualità e al miglioramento continuo, la capacità di lavorare in team, per obiettivi, la capacità di lavorare sotto stress, la gestione dei conflitti, la capacità di gestire un rapporto etico e positivo con i propri superiori e cosi via.
Se la via maestra quindi è questa, avvicinare la scuola al lavoro e il lavoro alla scuola, che senso ha parlare di privatizzazione delle scuole o di favori alle aziende quando si cerca di costruire un sistema capace di arginare il buco nero della disoccupazione nel quale cadono da decenni i nostri giovani?
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