I compiti asincroni, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare l’IA
di Giulio Iraci*
I compiti asincroni sono una tipologia di verifica atipica. Diversamente dalle verifiche tradizionali sono svolti a casa e, di conseguenza, offrono maggiore libertà di svolgimento. Sono dunque meno stressanti, anche per chi insegna, specie quando si hanno poche ore di lezione e non le si vuole infarcire di interrogazioni. Sono inoltre inclusivi, perché consentono alle studentesse e agli studenti più fragili di esprimere il loro potenziale, soprattutto se prevedono modalità creative.
Fino allo scorso anno scolastico il principale problema dei compiti asincroni era che le studentesse e gli studenti copiassero da internet. Problema tragicamente deflagrato con la pandemia, quando la tendenza di noi docenti a trasformarci in cyber-gendarmi raggiunse vette paragonabili alle distopie dickiane. Chi di noi rimpiange i mesi del lockdown in cui, muso sullo schermo, cercavamo nei compiti le tracce del web? Forse avremmo dovuto capire già allora che fare i segugi cibernetici era, è e sempre sarà una guerra persa.
Da questo anno scolastico, ma in fondo già dalla seconda metà di quello precedente, assegnare verifiche scritte su piattaforma implica il probabile uso dell’Intelligenza Artificiale.
La proverbiale occasione, unita al poco tempo pomeridiano e alla scarsa motivazione intrinseca, fanno delle studentesse e degli studenti ladre e ladri provetti: abilissimi – ma a volte con un’ingenuità disarmante – nello spacciare come autonomi ragionamenti che trasudano algoritmi da ogni riga.
Inutile tentare di capire da dove hanno ricavato quei ragionamenti: nell’era dell’IA mettere le frasi sospette su Google non darà più risultati apprezzabili, se non quello di accrescere la nostra frustrazione.
Che fare?
Due sono le soluzioni per ovviare all’impossibilità di smascherare il cheating 4.0: far svolgere quei compiti direttamente a scuola, magari con software inibenti (e con buona pace dei vantaggi asincroni), oppure farli svolgere a casa chiedendo di discuterne nella lezione successiva.
Io ho scelto la seconda opzione, e la trovo soddisfacente, soprattutto per le studentesse e gli studenti. Infatti, che quei compiti li svolgano loro o un software (o, come ai nostri tempi, un familiare zelante), il giorno della restituzione dovranno dar prova di sapere cosa c’è scritto e di saperne parlare. E, a quel punto, è così importante chi o cosa li ha elaborati?
Meglio ancora è inserire il possibile uso dell’IA direttamente nelle istruzioni del compito, sdoganando e valorizzando uno strumento e una condotta altrimenti percepiti come fraudolenti.
Le studentesse e gli studenti che si affideranno all’IA – quasi sempre i più deboli della classe – scopriranno rielaborazioni che non avrebbero saputo fare autonomamente. L’IA li aiuterà a svolgere un lavoro metacognitivo su cui, proprio grazie a quei software, cominceranno a mettersi alla prova. E così, facendosi aiutare da quell’applicazione, pian piano impareranno a svolgere quei compiti autonomamente, anche a scuola.
Se poi si chiederà alla classe – come faccio e consiglio di fare – di discuterne in piccoli gruppi, si otterrà l’ulteriore vantaggio di favorire il confronto tra chi ha tirato fuori la farina dal proprio sacco e chi l’ha presa dal sacco virtuale. Un mix di tutoring virtuale e peer education reale, i cui benefici sono tangibili, anche in termini di pensiero critico. Uno degli usi più interessanti dell’IA infatti è proprio quello di capire che a volte prende delle cantonate pazzesche e che bisogna imparare a riconoscerle.
Ma c’è un ultimo aspetto da tenere in conto, forse il più formativo di tutti. Il giorno della discussione le studentesse e gli studenti più responsabilizzati a studiare il compito asincrono saranno proprio quelli che avranno usato l’IA. Saranno loro – quelli che fino all’anno scorso volevamo stanare con funzioni antiplagio e mail inquisitorie – a voler dimostrare di aver imparato rielaborazioni e argomentazioni che non sapevano fare (o che non avevano il tempo o la voglia di fare).
Insomma, per quanto mi riguarda l’IA può rivelarsi didatticamente proficua. Ecco perché da qualche tempo non solo ho smesso di preoccuparmi se gli studenti e le studentesse usano ChatGPT, Gemini & Co., ma ho persino cominciato a sentire uno stranamore per l’Intelligenza Artificiale. Anziché ingaggiare con la tecnologia l’ennesima, inutile guerra fredda, ho preferito aprirmi all’IA cercando di vederne i lati positivi, e ho scoperto che ci sono.
Perché sì, l’IA ha sicuramente delle controindicazioni. Ma, come per l’energia nucleare del secondo dopoguerra, sono controindicazioni perlopiù umane, politiche, connesse all’uso che se ne fa. Se impiegata per scopi formativi e inclusivi, l’IA può rivelarsi utile e si può persino imparare a volerle bene, specie se aiuta chi a casa non ha nessun supporto (neppure quello di familiari zelanti). E comunque, diversamente dalla bomba cavalcata dal pilota-cowboy del film di Kubrick, l’uso scolastico dell’IA non farà male a nessuno.
Male che va, ferirà il nostro strano amor proprio e darà una mano a chi i compiti – asincroni o sincroni – non li sa fare, non li vuole fare e (infatti) spesso non li fa.
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