Global Teacher Prize: a colloquio con Leonardo Durante, il prof italiano tra i migliori 50 del mondo

di Anna Maria De Luca
E’ l’unico italiano tra i 50 migliori insegnanti al mondo, selezionati per il Global Teacher Prize 2021. Leonardo Durante, docente di Sistemi automatici e controlli presso il tecnico industriale “Enrico Fermi” di Roma, è  stato selezionato tra oltre ottomila colleghi provenienti da 140 Paesi.  Noi di Tuttoscuola lo abbiamo incontrato.

Il suo entusiasmo l’ha portata fino al premio Nobel per i docenti, entrando tra i 50 finalisti nel Global Teacher Prize 2021. Qual è il segreto del suo successo come insegnante?

“Non so se c’è un segreto, sicuramente di base c’è la mia convinzione che se diamo il massimo come docenti, come persone, saremo dei buoni esempi per formare gli adulti del futuro.
Tra le cose che più mi stanno a cuore è lavorare con empatia, nonostante l’infinita burocrazia e la didattica spesso obsoleta. Il rispetto è, inoltre, fondamentale. La classe docente, da anni, subisce maltrattamenti da ogni angolazione e questo essere bistrattati, non solo dal punto di vista economico ma anche mediatico, si riflette nell’immagine che gli studenti vedono dei prof. Rimarcare il concetto di rispetto reciproco è una chiave importante per fare breccia nei nostri studenti”.

Quali sono le invenzioni create con i suoi studenti che più le sono rimaste nel cuore?

“Non posso non ricordare il primo, tanti anni fa. Vivevo ancora a Palermo e all’Istituto Professionale di Bagheria abbiamo progettato con una fantastica collega un robot per la pulizia dei pannelli fotovoltaici. 
In quella realtà, stimolante e a volte non facile, ho compreso che lavorare in termini laboratoriali e imprenditoriali poteva essere un buon metodo per ottenere risultati concreti. Da lì, grazie anche a associazioni no profit come JA Italia, Lazio-Innova e cosi dicendo abbiamo costruito tanti prototipi come il casco da moto con le frecce di svolta integrate, innovativo nel 2016 e super tecnologico o anche una serratura domotica, la prima in assoluto realizzata concretamente o il carrello per i disabili per portare la spesa. Non mi chieda di scegliere, ogni progetto è associato a visi, studenti che non posso dimenticare. Non è il progetto in sé ma le persone, gli studenti, i momenti trascorsi a scuola, nelle fiere come il Maker Faire, negli Hackathon di Tree o nelle altre manifestazioni o competizioni che fanno di ogni progetto, un progetto unico”.

Il learning by doing nelle scuole italiane, molte ancora prive di laboratori. Come si fa, in concreto?

“E’ una sfida ogni volta ma lavorando in una scuola Tecnica, l’Enrico Fermi di Roma, a Monte Mario, risulta meno complicato perché abbiamo sempre buoni laboratori e gli studenti hanno mediamente buone competenze tecnologiche. Generalmente partiamo da un brain storming dove mettiamo tutte le idee innovative, i problemi di ogni giorni, che riscontriamo da qui i progetti che le citavo prima. Segue una fase di verifica delle possibilità concrete di realizzazione di uno o più progetti, che non sia il classico teletrasporto che tutti noi vorremmo realizzare, o la macchina del tempo…
In tale fase facciamo una analisi dei possibili competitors o se c’è già qualcosa di simile già inventato e si divide il gruppo per competenze e per compiti. E così via.. i progetti a volte durano anche un anno intero perché non possono essere realizzati sempre nelle ore curriculari e spesso ci tratteniamo oltre l’orario scolastico.
Nella fase realizzativa è importante la documentazione di ogni singolo passaggio e terminato il prototipo si testa e si crea un profilo social su Instagram, Facebook e un sito web per renderli “visibili” in rete. I progetti possono essere “destinati” per un evento o meramente per una sfida tecnologica”. 

Lei spinge molto i ragazzi verso la tecnologia, come fare perché Internet non diventi una vera dipendenza? 

“La tecnologia va di pari passo con Internet, non c’è nulla di male. I miei studenti hanno spesso lo smartphone in mano per le ricerche, per fare brain storming o per gamification (giocare apprendendo)”.

Gare, hackathon e sfide inter-scuola in piena pandemia: come riesce a convincere i ragazzi, già oberati dalla scuola, a partecipare anche alle competizioni? 

“Ecco, accade spesso il contrario, molti mi chiedono di realizzare un nuovo prototipo e spesso proprio di partecipare alle competizioni. C’è più gusto a competere, nella eventuale sconfitta c’è la vittoria di essersi messi in gioco a differenza di tanti ragazzi per, un motivo o per l’altro usano la tecnologia per un uso non corretto negativo, leggasi cyberbullismo…”.

Il 40% dei suoi studenti frequenta facoltà scientifiche, mentre il 60% trova lavoro specialistico come tecnico in elettronica, automazione, informatica o telecomunicazioni, anche all’estero. Crede ci sia un modo per superare il divario di genere nelle materie scientifiche?

“E’ un argomento che mi sta particolarmente a cuore. Nella nostra bella Italia c’è ancora lo stereotipo che una ragazza non possa essere una buona tecnica. In Istituto lavoriamo concretamente, specialmente durante l’orientamento degli studenti delle medie inferiori per sfatare questo stereotipo ma è una mentalità dura a morire. Si  crede spesso che nei Tecnici Industriali vadano dei ragazzi provenienti da classi sociali basse e disagiate cosa che ovviamente non è e non deve essere. L’Italia ha bisogno di crescere ed ha bisogno di tecnici, lo ha detto anche Draghi nel suo discorso di inizio anno 2021. Tra le proposte che farei e, ho più volte citato, cambierei il nome da Istituto Tecnico Industriale a Liceo Industriale. Ovviamente la didattica dovrebbe cambiare di pari passo a favore di una didattica più laboratoriale, imprenditiva e fine alla realizzazione di progetti pratici”.

Le è capitato di trovare qualche studente alle prese con un’idea in cui il ragazzo/a non credeva abbastanza e che poi ha avuto successo?

“Le idee hanno tutte avuto successo, c’è uno studio approfondito sotto e se non ci crediamo non le realizziamo. Direi, invece, che grazie a molti progetti alcuni ragazzi non credevano in sè e nelle proprie capacità ed invece adesso sono adulti, consapevoli e di successo”.

Cosa significa per lei formare un cittadino globale?

“Sta alla base dell’idea del mio lavoro. I progetti sono ideati e realizzati in Istituto ma grazie alle iniziative dette prima i ragazzi si trovano a confrontarsi con studenti, adulti che non conoscono e sono “costretti” a mettersi in gioco e crescere più velocemente. Acquisiscono quelle competenze specifiche ma soprattutto trasversali che sono fondamentali nel mondo. Accade molto spesso che durante queste gare ci siano dei cacciatori di talento che vorrebbero assumere da subito questi bravi studenti”.

Progetti  Erasmus plus in Inghilterra e Spagna, sappiamo che ha già in cantiere un 2022 internazionale. Ci può anticipare qualcosa?

“Purtroppo siamo ancora in pandemia e tutto è nel limbo più assoluto. Sì, c’è nell’aria qualche progetto con la Spagna ma è prematuro parlarne adesso…”.

Un consiglio per quei docenti che non riescono a catturare l’attenzione dei propri allievi?

“Non mi permetto di dare consigli, cerchiamo – e mi riferisco non ai colleghi ma ai genitori – di essere più genitori e meno fans dei propri figli: cresceranno sicuramente meglio. Einstein sosteneva che lo studio e, in generale, la ricerca della verità e della bellezza sono una sfera di attività nella quale ci è consentito di rimanere bambini per tutta la vita. Molti dimenticano che sono stati bambini con la gioia di apprendere, di imparare. Io cerco di non far dimenticare la gioia di imparare, di essere curiosi”.

Cosa le hanno scritto il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, il Presidente della Regione Lazio, Zingaretti ed il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando)?

“Sono onorato di aver ricevuto queste attestazioni di stima, non avrei mai immaginato da piccolo di poter avere questi riconoscimenti. Sono tutti importanti, ognuno di loro mi ha fatto ancora di più comprendere quanto importante sia il ruolo di noi docenti, di educatori. Vorrei che entrasse nelle teste di coloro che ancora credono che un docente lavori 18 ore a settimana con tre mesi di ferie. Questa gente fa finta di non sapere che per ogni compito da correggere che ci portiamo a casa, per ogni riunione, per ogni progetto dietro tutto ciò ci sono i loro figli con le loro identità, il loro bisogno di sentirsi unici e apprezzati per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero”.
 
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