‘2015, fine della scuola?’ Atti del convegno di Tuttoscuola

Atti del Convegno nazionale promosso da Tuttoscuola



2015, fine della scuola?



Alcune tendenze in atto a livello internazionale e nella società italiana prefigurano per l’educazione uno scenario, nel volgere di pochi anni, del tutto inedito, e pongono un interrogativo per certi versi inquietante: la scuola rischia di essere messa fuori gioco, percepita dagli adolescenti di domani come un’istituzione inutile?

 

 

 

Genova, 26 novembre 2004

Convegno presso ABCD, il salone sulla scuola promosso dalla Fiera di Genova

 

 

Introduzione:

 

Giovanni Vinciguerra – Direttore Tuttoscuola

 

Relatori:

 

Sebastiano Bagnara – Ordinario di  psicologia  ed  ergonomia cognitiva al Politecnico di Milano

Paolo Cortigiani    Dirigente  Scuola  Media  Statale  “Don Milani – Colombo” di Genova

Claudia Donati – Responsabile area Scuola del Censis

Silvano Tagliagambe – Ordinario di epistemologia del  metodo all’Università di Sassari

 

Moderatore:

 

Raffaello Masci – Giornalista de “La Stampa”

 

 

 

 

 

Vinciguerra:

Il titolo che abbiamo scelto per questo convegno “2015, fine della scuola?”, è una domanda dal sapore vagamente provocatorio. Anzi volutamente provocatorio. E in fondo paradossale. E’ un paradosso pensare che nel breve arco di un decennio l’istituzione scuola come la conosciamo oggi e come si è sviluppata nell’ultimo secolo possa “finire”.

Del resto tutti noi NON VOGLIAMO che finisca, anche perché chi ci lavora, dal di dentro o intorno ad essa, crede – nella maggior parte dei casi – in quello che fa.

 

Ma questo non può far indulgere a un sereno ottimismo, non implica chiudere gli occhi e anche le orecchie davanti a fenomeni e tendenze ormai ben visibili e documentabili, come tenteremo di fare oggi e come abbiamo già fatto nello speciale del numero di dicembre 2004 di Tuttoscuola.

 

Si tratta di tendenze per le quali non è difficile pronosticare degli effetti rilevanti – diretti o indiretti – sul modo di fare scuola, sui compiti che la società richiederà ad essa in futuro. Sono in atto dei cambiamenti a livello economico, sociale, geopolitico che metteranno seriamente in discussione l’istituzione scuola come la conosciamo oggi e il rapporto docente-alunno: un rapporto che forse non a partire da domani, ma già da oggi è diventato più complesso. E nuove complessità lo investiranno.

 

Non ci riferiamo solo, lo dico subito, alle nuove tecnologie, che pure rappresentano un fattore di cambiamento radicale, ma ormai ben noto. Ci riferiamo ANCHE ad esse, ma pure ad altri fenomeni, di natura e intensità diverse, la cui concomitanza fa accendere tante spie rosse, che insieme generano – immaginiamoci nella cabina di pilotaggio di un aereo – uno stato di pre-allarme, chiamiamolo così.

Fenomeni in taluni casi meno noti, o comunque non tutti messi in relazione con il contesto formativo: il tasso di invecchiamento (della società e degli insegnanti), la multietnicità, la concorrenza di altre agenzie e luoghi formativi, il malessere e la crescente disaffezione di molti insegnanti, per citarne alcuni. Li scorreremo velocemente tra poco.

 

Del resto non siamo i soli a porci degli interrogativi sul futuro: lo scrittore Pietro Citati scriveva recentemente su “Repubblica” di una tragedia annunciata: “Dopo il disastro della Parmalat, dell’Alitalia, delle squadre di calcio, il disastro del liceo e dell’Università avrà presto dimensioni e conseguenze tali che gli altri sembreranno lievissime carezze di piuma”.

Lo stesso ministro dell’istruzione Letizia Moratti alla domanda se può davvero venir meno la struttura formativa di base garantita dalla scuola italiana, ha risposto – con disinvoltura – che essa “è già, nei fatti, venuta meno”, e che “i livelli di apprendimento si sono via via abbassati soprattutto per quanto riguarda le conoscenze fondamentali (italiano, matematica e scienze)”. Da qui, secondo lei, il senso delle sue riforme. Ma non è di questo che vogliamo parlare oggi.

Ha detto qualche giorno fa il Presidente della Repubblica parlando ad Enna a degli studenti: “Il primo dei nostri doveri è di dare a voi giovani scuole di ogni ordine e grado che vi consentano di sviluppare tutto il potenziale della vostra intelligenza, della vostra voglia di fare”. Ecco, il saggio richiamo del Presidente Ciampi, rischia di arrivare tardi.

 

Si tratta di un rischio potenziale, assolutamente non di una certezza, e non saremo certo noi a fare le “cassandre” per la scuola. Ma vale la pena studiare a fondo il problema, guardarci bene dentro. Prevenire è meglio che curare…

Ecco, far acquisire la consapevolezza che siamo di fronte a tendenze che imprimeranno nei prossimi anni un cambiamento di intensità inedita è l’obiettivo principale della nostra inchiesta e di questo convegno. Ciò che auspichiamo è proprio che sia l’avvio di una riflessione e di un dibattito.

 

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Siamo partiti nella nostra analisi da un dato, che ci ha fatto scattare alcune domande. Si tratta, per meglio dire della contrapposizione tra due dati, che generano un contrasto stridente:

se si fa una proiezione a dieci anni delle figure del docente e dello studente, si scopre che circa l’80% dei docenti del 2015 è già in servizio oggi. Degli 820 mila docenti, di ruolo e non, di oggi, circa 635 mila saranno ancora in cattedra tra 10 anni. Ma lo studente del 2015 sarà profondamente diverso da quello di oggi, molto più di quanto quest’ultimo non sia rispetto a quello di dieci anni fa.

 

Se già oggi il modello del docente tradizionale comincia a “stare stretto” allo studente curioso, inserito nel proprio tempo, cosa succederà tra dieci anni allo stesso docente che si troverà di fronte un adolescente ancora diverso, che avrà interiorizzato sia il progresso tecnologico, sia la società multirazziale e globalizzata?

 

Insomma, se la scuola non si adegua rischia di essere tagliata fuori, di “non servire più” alla società che dovrebbe formare e rispetto alla quale offrirebbe modelli superati. L’adolescente del 2015 accetterà di dedicare ad essa tanta parte del suo tempo?

E’ sufficiente che lo studente-tipo guardando un giorno chi sta dietro la cattedra arrivi a chiedersi: “ma cosa ha da insegnarmi quella signora?”. E certo non aiuteranno l’aula scrostata e il banco rotto, teatro triste del fare scuola.

Il rischio è quello di una nuova frattura generazionale, diversa da quella del ’68, non più a carattere ideologico e politico, ma basata sull’insofferenza dell’adolescente di domani, sulla perdita di credibilità e di senso dell’istituzione scuola, sulla sua incapacità di comunicare se stessa, di usare linguaggi e strumenti diversi.

Se questi sono rischi concreti, cosa può fare la scuola per evitarli? Ci sono i tempi tecnici per prepararsi?

Il 2015 è una data non così vicina da ancorare le previsioni evolutive agli assetti esistenti, ma neppure tanto lontana da rendere immaginaria qualunque ipotesi sui cambiamenti futuri.

 

Nel giro di un decennio gli scolari nati nel terzo millennio, cresciuti in un “brodo tecnologico” con computer palmare e videotelefono, connessi a internet dalla nascita, abituati al compagno di banco straniero, ad essere giovani in una società sempre più anziana, come guarderanno il loro “prof.”?

Cosa si aspetteranno da lui, potendo già contare su potenti strumenti alternativi di conoscenza e di informazione e su innumerevoli stimoli, quali avranno a disposizione nell’era, ormai dietro l’angolo, della banda larga e della piena integrazione TV-telefono-PC?

 

 

Le direttrici del cambiamento

 

La prima è:

 

  • Il gap multimediale: si allarga il divario tra le abilità informatiche di un cinquantenne e di un 14enne. Tra dieci anni un bambino delle elementari potrebbe possedere una competenza informatica superiore a quella della maestra. Quale impatto avrà sul loro rapporto?

L’avvento del computer e di Internet sta scavando un fossato tra la generazione alla quale appartengono quasi tutti gli attuali genitori e insegnanti e la generazione del 2000+.

Pensiamo al nuovo servizio che ha annunciato solo pochi giorni fa il motore di ricerca Google: si chiama “Google Scholar” e permette di ricercare parole-chiave dentro intere biblioteche, paper di congressi scientifici, database e in tutto ciò che sia conoscenza accademica e sia stato inserito nel web. In pochi secondi si può avere a disposizione l’informazione selezionata sul meglio che l’umanità ha prodotto su un certo argomento.

Solo fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile. E proviamo a immaginare cosa sarà disponibile tra qualche anno. Secondo Federico Faggin, scienziato italiano trapiantato negli Usa dove ha realizzato il primo microprocessore della storia, nel 2050 l’informazione contenuta in 100 milioni di libri tradizionali entrerà nelle tasche dei nostri blue jeans. E non bisognerà aspettare quella data per avere facilmente a disposizione, su qualsiasi argomento, documentazione in grado di annichilire il confronto con qualsiasi libro di testo.

 

Si calcola che il gap tecnologico che esiste oggi tra una persona anziana e il proprio nipote, è molto più consistente di quello che c’era una volta tra un anziano completamente analfabeta e il nipote che andava a scuola.

E andando molto più indietro nel tempo, se tra noi e gli antichi romani ci separano circa cinquanta nonni, si può sostenere che non ci sia mai stato in tutto questo arco di storia un potenziale gap tanto ampio tra un nonno e un nipote come quello di oggi e dei prossimi anni.

Quale l’origine di questo gap? La scuola ha finora educato all’analiticità, avvalendosi massicciamente dei libri di testo. E la stragrande maggioranza degli attuali insegnanti (che saranno in servizio anche nel 2015) si è formata sui libri. I giovani, i giovanissimi e ancor più le prossime generazioni, cresceranno invece in una realtà sempre più multimediale, orizzontale, reticolare, iconica.

Il mondo della scuola riuscirà a colmare il gap che già oggi si nota tra il modello culturale (e pedagogico) monomediale del suo passato-presente e quello multimediale richiesto dall’evoluzione tecnologica e sociale del nostro tempo? Se non si saprà adattare, non solo, ma reinterpretare in chiave critica e propositiva i nuovi modelli, potrebbe finire per perdere gradualmente la sua ragione sociale.

 

 

  • Studiare a casa e non a scuola? Già oggi negli Usa, società per molti versi proiettata nel futuro, 2 milioni di studenti non studiano a scuola. Sono gli “homeschoolers“, il cui numero è cresciuto rapidamente (erano solo 20.000 negli anni settanta) soprattutto da quando le nuove tecnologie hanno consentito di disporre on line di quantità imponenti di informazioni, materiali didattici, sussidi vari, accompagnati da programmi di assistenza individualizzata, forniti da varie imprese e organizzazioni.

La previsione di un centro di ricerca specializzato in materia, il National Home Education Research Institute (www.nheri.org), è che nel 2040 il numero degli homeschoolers supererà negli Usa quello degli studenti che frequentano scuole di tipo tradizionale. La previsione si fonda, oltre che sulle crescenti opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico (banda larga, etc), sul fatto che già ora i risultati conseguiti dagli homeschoolers nei test standardizzati sono mediamente migliori di quelli ottenuti dagli studenti delle scuole pubbliche, in una misura variante dal 30 al 37%. Anche se queste analisi non sembrano tener conto del valore “educativo” del gruppo-classe e del “fare squadra”.

In Italia il fenomeno è per ora irrilevante, ma lo spostamento dell’accento dai curricoli agli esami e alle certificazioni, e l’eventuale assegnazione di buoni studio alle famiglie che volessero intraprendere questa strada potrebbero creare anche da noi condizioni più favorevoli allo sviluppo del fenomeno, che in pochi anni – lo spazio di 1-2 generazioni – ridurrebbe buona parte dei luoghi fisici nei quali oggi si fa scuola in qualcosa di simile alle fabbriche dismesse per manifesta obsolescenza: luoghi dell’archeologia formativa.

 

 

  • Gli insegnanti “scoppiati”: la categoria degli insegnanti è quella più esposta, tra i lavoratori, a una nuova malattia, nota come “burnout syndrome“, o “sindrome dello scoppiato”.

Le cifre fornite dallo studio “Golgota” per la Fondazione IARD parlano chiaro: l’analisi delle 3.347 richieste di inabilità al lavoro presentate alla ASL di Milano dal gennaio 1992 al dicembre 2003 mostra che l’incidenza delle patologie psichiatriche sul totale è del 49.8% per la categoria degli insegnanti, del 37.6% per gli impiegati, del 28.3% per gli operatori sanitari e solo del 16.9% per gli operai. Segno che il mestiere dei maestri e dei professori è oggi il più usurante, almeno dal punto di vista psicologico-psichiatrico, tra quelli presi in considerazione.

Anche i dati relativi all’incidenza nel tempo del burnout sul totale delle patologie psichiatriche vedono salire la percentuale degli insegnanti dal 44.5% del 1992-1994 al 56.9% del 2001-2003.

Un quadro preoccupante toccato con mano con sempre maggior frequenza da chi frequenta le scuole italiane.

Non è allora un caso che il 32% dei ragazzi tra i 14 e i 16 anni ritiene che gli insegnanti siano disaffezionati alla propria classe, mentre il 26% degli studenti considera i propri professori distaccati da quello che insegnano. Sono i risultati di una recente inchiesta condotta dall’Osservatorio sui Diritti dei Minori.

Il rischio concreto è che una parte della classe docente in questo stato non stimoli adeguatamente i giovani, non rappresenti un modello credibile e ne deluda le aspettative.

 

 

  • Il tasso di invecchiamento: oggi in Italia ci sono più ultrasessantenni che ventenni. È la prima volta che accade nella storia dell’umanità. Per ogni 100 giovanissimi (età 0-14 anni), vi sono 130 anziani (65 anni e più). Nel 2015 vi saranno 153 anziani (182 al nord) ogni 100 giovanissimi. Solo 25 anni fa, nel 1980, il rapporto era capovolto: 58 anziani ogni 100 giovanissimi.

Il peso del divario generazionale e la conseguente trasformazione degli assetti sociali ed economici potrebbero da un lato spostare una quota ulteriore della spesa pubblica sul mantenimento degli anziani con possibile danno per l’investimento nella formazione dei giovani, dall’altro richiedere ai giovani di accelerare i tempi in cui diventare produttivi.

Una società che invecchia pone anche dunque problemi di ordine sociale ed economico, a cominciare, ad esempio, dai maggiori oneri finanziari ed organizzativi che gli Enti locali sono chiamati ad impegnare per offrire più ampi e differenziati servizi sociali ai cittadini anziani.

Quegli stessi Enti locali che, per effetto dei decentramenti amministrativi e dell’attivazione dei principi di sussidiarietà, dovranno sostenere maggiori impegni finanziari anche per la scuola, tra dieci anni saranno obbligati a destinare crescenti risorse finanziarie ai servizi sociali per anziani, con il possibile effetto di limitare o ridurre quelle per l’istruzione.

 

E in una società che diviene sempre più anziana, il microcosmo dei docenti è particolarmente anziano: quasi un docente su due ha più di 50 anni. La percentuale di docenti di età superiore al mezzo secolo ha raggiunto infatti nell’ultimo anno il 45%. Solo sei anni fa i docenti ultracinquantenni erano circa il 27% del totale.
L’
età media di un insegnante di ruolo è oggi di 48 anni e mezzo. Sei anni fa era di circa tre anni inferiore.

E il processo di invecchiamento della classe docente italiana, cui corrisponde una crescente femminilizzazione, non si ferma qui. Un lento turn over e assunzioni a singhiozzo fanno prevedere per i prossimi anni un ulteriore innalzamento dell’età media. Nel 2015 il gap generazionale, e quindi anche culturale con gli studenti si sarà ulteriormente ampliato.

L’invecchiamento, viste le situazioni analoghe di docenti e dirigenti scolastici, è dunque un elemento caratteristico della scuola statale italiana che mette in risalto il fortissimo divario generazionale con gli allievi.

 

 

Genitori “giovani”, docenti “vecchi”

 

A marcare un potenziale ulteriore distacco tra discenti e docenti, oggi e forse ancor più tra dieci anni, è l’allungamento del ciclo della vita. Come può impattare questo fenomeno sul rapporto tra ragazzi e scuola? L’allungamento dell’esistenza ha dilatato il concetto di giovinezza, con possibili ripercussioni rilevanti. Già oggi il genitore trentenne o quarantenne è considerato ancora giovane (fa sport, vacanze, conserva gli interessi che aveva prima). E’ spesso il primo “amico” dei figli (con effetti educativi in molti casi distorcenti).

Ora, con una classe docente sempre più anziana, come abbiamo visto, la vicinanza generazionale tra genitori e figli può far risaltare negativamente la distanza generazionale – e quindi anche culturale  e mentale – con gli insegnanti.

 

 

  • La multietnicità: cinque anni fa gli alunni stranieri nella scuola italiana erano 85 mila (1% del totale alunni), nel 2015 saranno 617 mila (oltre il 6%, al nord il 12-13%), più di un terzo dei quali di religione musulmana.

Nelle aule italiane si parlano ormai 113 lingue e si professano 16 diverse religioni. Culture e religioni diverse cominciano a integrarsi sui banchi di scuola.

Già oggi fanno discutere le iniziative di classi per soli musulmani o l’opportunità del crocifisso dietro la cattedra. E poi, come si potrà garantire un livello di apprendimento uniforme, e che non tenda verso il basso? Certamente la scuola dovrà nei prossimi anni raccogliere ancora molte sfide nel campo dell’integrazione interculturale.

 

 

  • Mancano tecnici intermedi e laureati in scienze: molte aziende, non solo del Nord, lamentano l’insufficienza di laureati nelle materie tecnico-scientifiche, ma soprattutto la grave carenza di tecnici diplomati e postdiplomati (non laureati) in possesso delle competenze tecniche necessarie per sostenere la competitività.

Un recente documento MIUR-Confindustria-Consiglio delle Scienze ha evidenziato la forte flessione verificatasi tra il 1989 e il 2000 nelle iscrizioni ai corsi universitari di Chimica (-43.1%), Fisica (-55.6%) e Matematica (-63.3%), a fronte di una accresciuta richiesta del mondo produttivo, alla quale si potrebbe aggiungere presto anche un fabbisogno di insegnanti di queste discipline.

E’ un sintomo che la scuola non è in grado in questo momento di offrire ciò che richiede la società (in particolare la parte più avvertita del mondo produttivo).

Quali possibili conseguenze se il sistema di istruzione non si attrezzerà in tempo per offrire quanto richiesto dal mercato? Il mondo dell’impresa farà da solo, creando proprie agenzie di formazione? I tecnici verranno cercati all’estero, in India, in Cina o magari in alcuni dei paesi entrati ora in Europa?

 

 

Gli scenari OCSE per il 2020

 

Passate in rassegna alcune delle principali “direttrici del cambiamento” che possono mettere in crisi il modello di scuola tradizionale, può essere interessante riportare in sintesi gli scenari a quindici anni previsti da un importante osservatorio internazionale.

L’OCSE, l’organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo dell’educazione, ha svolto uno studio che presenta una serie di ipotesi sulle trasformazioni che i sistemi scolastici subiranno nei prossimi anni, in particolare per il 2020: un periodo quindi molto vicino a quel 2015 che abbiamo preso a riferimento per la nostra riflessione.

Lo studio delinea tre possibili scenari. Il primo è quello della conferma dello status quo: mantenimento di un forte “controllo burocratico” sul sistema (curricoli, formazione e accesso alla professione, finanziamento) da parte di autorità pubbliche, con conseguente stabilità,  accompagnata però da una possibile carenza di docenti.

Il secondo scenario è quello della riscolarizzazione, cioè di un forte sviluppo del ruolo dei sistemi scolastici in termini strategici, sostenuto da adeguati investimenti. Il terzo scenario è quello invece della descolarizzazione, cioè dello smantellamento dei sistemi formali di istruzione e formazione, sostituiti da reti cooperative (“learning networks”) gestite dalle comunità locali, o da una forte competizione tra agenzie formative e altri soggetti operanti in una logica di puro mercato. Questo terzo scenario potrebbe portare a “smantellare” la scuola, in particolare quella pubblica, così come la conosciamo oggi, approdando a modelli mai sperimentati e di cui non sarebbero conoscibili in anticipo gli effetti a livello sociale e culturale.

 

E’ evidente che l’assetto che avrà il nostro sistema di istruzione e formazione tra 10-15 anni dipende strettamente dalle scelte e dagli investimenti che si compiono e si pianificano ora.

           

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