Domande inutili sulla chiamata diretta

Si è parlato relativamente poco, nei media, del recente accordo che ha cancellato la cosiddetta “chiamata diretta” dei docenti da parte dei presidi. E forse è normale che sia così: gli autori del testo avevano ogni interesse a sorvolare e molta parte di coloro che avrebbero dovuto indignarsi non ha capito la posta in gioco. Ci sono domande che è sconveniente fare in pubblico, per non turbare la pace sociale ed il politically correct. In attesa che un bambino si faccia avanti per proclamare che il re è nudo, proviamo noi a formularne qualcuna.

Chi ha vinto con questo accordo? È ovvio: i sindacati da una parte e l’Amministrazione dall’altra, complici da sempre nel difendere un principio scolpito nella roccia. La scuola è cosa loro e di nessun altro: men che meno dei cittadini.

Chi ha perso è meno evidente ed è suonato ingenuo, oltre che maldestro, ricorrere ancora una volta al distrattore che da sempre accompagna le vicende della “buona scuola”: i presidi, la cui discrezionalità “eccessiva” sarebbe stata finalmente limitata. In realtà, parlare di discrezionalità in un contesto, come la scuola, in cui nessun limite è posto alla discrezionalità valutativa dei singoli docenti fa un po’ sorridere. Quali garanzie ha un ragazzo rispetto al voto del singolo o dei consigli? Quando gli va bene, proprio un preside autorevole e determinato. Ma la regola generale è ben diversa e lo sanno bene tutti quelli che nella scuola ci vivono. L’unico limite all’arbitrio valutativo è la scienza e coscienza di chi valuta. Il problema non è questo: ci sono professioni ad alto contenuto etico – come il docente, il medico, il magistrato – in cui la libertà di giudizio e di decisione è coessenziale all’esercizio della funzione. Il problema è che dovrebbero esistere dei poteri di bilanciamento, come il CSM o l’Ordine dei Medici: poteri che nella scuola non ci sono.

No, i presidi in quanto persone non hanno perso in questa vicenda: se mai hanno guadagnato qualche giorno di ferie, che negli anni scorsi avevano sacrificato proprio nell’esercizio di una misura, per quanto minima, proprio di quei poteri di bilanciamento che si sono voluti eliminare. Adesso sono semplicemente più disarmati e più soli nel tentativo di garantire ai propri ragazzi il meglio di quel che questa disastrata scuola è in grado di offrire. Ma sono abituati da sempre ad esercitare questo difficile compito: ed i più bravi fra loro sono anche riusciti a smentire la sentenza amara che riguarda i profeti solitari. Che quelli armati vinsono et li disarmati ruinorno.

Chi ha perso, allora? È semplice, quando si guardi al cui prodest. Hanno perso in primo luogo gli studenti, in secondo luogo l’autonomia delle scuole, e per finire i docenti migliori e più preparati.

I ragazzi hanno perso fin la speranza che potesse toccare loro – grazie ad un preside attento e determinato a giocarsi le vacanze – un insegnante migliore, o semplicemente più adatto ai loro bisogni, di quel che le graduatorie sceglieranno, sulla base di criteri che niente hanno a che vedere con le qualità professionali, che nessuno valuta e che comunque non hanno alcun peso. Giudica e manda secondo che avvinghia, si potrebbe dire del meccanismo infernale delle graduatorie. Del resto, a giudicarne la bontà, basterebbe guardare ai risultati che decenni di utilizzo hanno prodotto. Chi si riconosce in questa scuola? Eppure non si possono volere gli effetti – i docenti migliori – ed insieme rimuoverne le cause: e cioè la valutazione implicita nella chiamata diretta.

Le scuole, autonome da vent’anni solo sulla carta, si vedono negare una volta di più la possibilità di scegliersi i docenti sulla base del proprio piano dell’offerta. Li avranno, come sempre, quale risultato della casualità. Il piano dell’offerta, posto che ne esista uno, sarà il risultato di quella casualità.

Mentre i docenti dovrebbero realizzare il progetto educativo della scuola, sarà la scuola a dover assecondare la somma aleatoria dei progetti individuali dei suoi docenti. Non sarà il docente ad essere una risorsa per la scuola, ma la scuola ad essere una risorsa strumentale delle esigenze personali e familiari di chi ci lavora.

L’autonomia non era un capriccio o un orpello: era la leva attraverso cui alle scuole era dato il mezzo per coprire la diversità dei bisogni dei propri studenti. Senza quella leva, l’offerta continuerà ad essere casuale e cieca rispetto alla necessità: ed a cinquant’anni dalla morte di don Milani, mentre tutti si sciacquano la bocca con il suo nome, si continueranno a fare parti uguali fra disuguali. Avessero almeno il buon gusto di tacere quei tanti fra i suoi seguaci a parole, che ne tradiscono ogni giorno l’insegnamento e la memoria nelle fila del sindacato o nelle stanze del Ministero. Riposi in pace anche l’autonomia.

Gli insegnanti migliori, infine. I sindacati – incapaci di garantire una carriera professionale vera, che richiederebbe appunto la valutazione e la diversificazione – sanno bene quanto sia importante per i docenti poter scegliere la sede migliore, o almeno una meno disagiata. Per ottenere questo risultato, scrivono ogni anno un contratto/ordinanza di oltre cento pagine. Peccato che quella summa sia pensata all’insegna della negazione del merito. Essa conferisce il diritto alla mobilità secondo l’età, l’anzianità di servizio, le esigenze familiari, la disabilità ed altro ancora: tutte variabili che nulla hanno a che vedere con le capacità e l’impegno dei singoli. Quelle parole sono tabù, proprio perchè presuppongono appunto la valutazione ed il discernere il grano dal loglio. E quindi la figura di un arbitro, che non potrebbe essere che il preside. Il quale, per definizione, sarebbe portato ad abusare della sua funzione, in danno dei valutati. Chissà perchè la presunzione di integrità e di buona fede, che vale per ogni docente nel momento in cui valuta i propri alunni, è negata invece a priori e senza appello ai loro dirigenti. Che sono stati docenti anch’essi e, se mai, hanno superato filtri ulteriori per accedere alle proprie funzioni. Ma la maledizione di Pat Garrett e Billy the Kid non si supera facilmente: e lo stereotipo dello sceriffo malvagio continua ad accompagnare chi ha l’onere di decidere.

La possibilità di muoversi e scegliersi la sede è stata chiamata, con espressione felice, come un salario invisibile per i docenti. Con la chiamata diretta, a quel salario potevano accedere per primi i più capaci ed i più attivi fra i docenti, o anche quelli più in grado di esercitare la flessibilità professionale che permetteva loro di adattarsi al progetto della scuola in cui desideravano andare. In misura certo insufficiente, potevano sperare di essere arbitri di una parte del proprio destino, grazie al lavoro ed all’impegno. Oggi la speranza è tolta anche a loro. Per riscuotere quel salario devono solo sperare nella canizie, cioè nel trascorrere del tempo. Un bel risultato, non c’è che dire.

Domande inutili, si diceva all’inizio. Ma, già che ci siamo, ce n’è un’altra che vorremmo fare. Gli studenti sono quasi otto milioni, le loro famiglie circa quindici. I docenti bravi molti di meno, ma comunque molte migliaia. Perchè questa folla di derubati non invade le strade, perchè non chiede conto a chi ha firmato quell’accordo dello scippo consumato ai loro danni? Non sarà forse perchè la comunicazione istituzionale ha fatto di tutto, anche in questa occasione, per presentare le cose sotto una luce che ne nascondesse il significato reale ed indirizzasse le emozioni su bersagli facili quanto ingannevoli? Ma tu non chiedere, Leuconoe: saperlo è un oltraggio agli dei …