Crisi energetica: riscaldamento scuole? Si piange sul latte versato di tante piccole scuole limitrofe

Emergenza energetica: leggo con molta amarezza, sui giornali, il tentativo di trovare soluzioni per aiutare Comuni e Province a pagare il riscaldamento delle scuole. La questione mi porta obbligatoriamente ad una riflessione che, per quanto dura e probabilmente contestabile da chi si rifugia nella retorica del “le scuole si aprono e non si chiudono”, non mi è possibile tacere. Ragionando per immagini, ricordate tutte quelle impalcature davanti a migliaia di plessi scolastici, in Italia? Le abbiamo tutte presenti, le abbiamo viste negli ultimi anni: grazie ai finanziamenti ricevuti, i Comuni sono riusciti a ristrutturare moltissime scuole. Bene, sicuramente. La questione che sollevo oggi, e che sollevavo anche all’epoca è la seguente: con quali criteri i Comuni hanno scelto quali plessi ristrutturare?

Nel mio caso, per esempio, mi ritrovo nove plessi, in un paesino del Sud a forte contrazione demografica, con bassissimi tassi di natalità e quasi senza immigrati. Vorrei che qualcuno del governo mi spiegasse cosa dovrei pensare io, come dirigente scolastica, in contesti del genere, di fronte ad un: “Stiamo ristrutturando le scuole per i vostri figli”. Forse non è noto a tutti che questi edifici, ristrutturati con soldi pubblici, a breve non saranno più popolati da alunni ma destinati ad altri usi, magari concessi alle associazioni che porteranno più voti alle future amministrazioni che dovranno scegliere cosa farne? Se davvero si voleva fare qualcosa per i ragazzi, quei soldi dovevano essere usati non per moltiplicare le spese dei Comuni e delle Province – immaginate quanto costino in termini di manutenzione e bollette, oggi con l’attuale crisi energetica, questi plessi ormai quasi inutili, con dentro pluriclassi o classi che si salvano, per il momento, solo perché ricadono in “comunità montane”, che a dispetto del nome comprendono anche paesini di mare, dove ci si può permettere di formare classi con pochi allievi – ma per fare una nuova scuola, sicura, capace di essere spazio di apprendimento, in linea con le architetture scolastiche europee e con tutti quegli studi che sono ben spiegati, da anni, da Indire.

Non sto parlando quindi di scuole in luoghi isolati, a distanza di decine di chilometri da altre scuole: quelle sono un presidio di civiltà.

Parlo di piccole scuole a pochi chilometri l’una dall’altra, preservate per motivi di campanile o di “contrada”.

Quindi, mi chiedo: con quale coraggio oggi, a causa dell’emergenza energetica, Comuni e Province possono dire ai dirigenti scolastici di non avere i soldi per pagare le bollette quando sono state le loro scelte politiche – avallate dalla Regione – a moltiplicare i costi invece che razionalizzarli?

Altro tema di questa inutile frammentazione di plessi, difficili da mantenere, che accomuna molte piccole comunità è la questione dell’identità. In molte realtà, se si chiede a un ragazzo “di dove sei?” la risposta non contempla il nome del paese ma solo il nome della contrada. Ci sono generazioni di ragazzi e ragazze, oggi uomini e donne, cresciute senza conoscere i coetanei della contrada accanto proprio perché ognuno ha frequentato la scuola nel proprio quartiere, complici le scelte di alcuni genitori che preferiscono ancora oggi mettere un figlio in una pluriclasse sotto casa – spesso perché lì insegna il docente amico, vicino di casa – piuttosto che in una classe con coetanei a poche centinaia di metri di distanza; e poi ci si meraviglia delle lodi che fioccano alla maturità in contrasto con i risultati dei test Invalsi? Una scuola unica, nuova e sicura permetterebbe ai ragazzi che vivono nei paesi di conoscersi tra di loro, di imparare a convivere insieme, a progettare insieme il futuro del proprio paese, superando quel campanilismo che spesso è il principale freno allo sviluppo della collettività. Quale immensa occasione sprecata aver ristrutturato plessi sgarrupati nelle campagne piuttosto che costruire una nuova scuola! 

Ristrutturare plessi inutili non è lavorare per la scuola: significa consolidare il bacino di voti degli abitanti del quartiere che hanno sostenuto Tizio o Caio alle elezioni, significa pensare a chi concedere, in futuro, un plesso ristrutturato, significa avere una moneta di scambio per le prossime elezioni.

Che si abbia almeno l’onestà intellettuale di non dire “stiamo ristrutturando le scuole per i vostri figli” dove figli non ne nascono.  Si cercano varie soluzioni, bene, dalla settimana corta in poi (molto frequente nelle città, assente in molti paesi), ma la domanda resta: chi usa in modo scriteriato soldi pubblici per ristrutturare plessi inutili, frequentati oggi da pochi bambini e domani da nessuno, non dovrebbe rendere conto delle proprie scelte piuttosto che lamentarsi per le bollette e per la crisi energetica? Ormai la frittata è fatta e gli stessi sindaci che fino a ieri si vantavano di aver ristrutturato dodici plessi oggi piangono perché non sanno dove trovare i soldi per riscaldarli.

Sarebbe interessante capire se, prima di concedere i finanziamenti, qualcuno abbia verificato i numeri reali dell’utenza scolastica, se qualcuno abbia mai fatto una proiezione, anche a breve termine, per il futuro. Ecco perché oggi la questione del gas e della crisi energetica è una cartina di tornasole: sottolinea la miopia politica di tutti quei comuni che hanno scelto di usare i fondi del governo per ristrutturare plessi scolastici destinati allo spopolamento piuttosto che costruire una nuova scuola, sicura e moderna, che potesse contenere tutti i ragazzi del paese.  Che oggi i comuni si trovino in difficoltà per pagare il gas di 8 o 9 plessi è solo il risultato di una grande occasione sprecata. E cosi noi dirigenti scolastici restiamo a gestire plessi sparsi, senza laboratori, senza palestre, e ora forse anche senza riscaldamento… 

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