Concorso DS/1. Summum jus, summa iniuria

Il principio è in sé indiscutibile: l’anonimato degli elaborati di un concorso pubblico va rigorosamente garantito. Ma come si fa, in nome di questo pur giusto principio di carattere astratto e generale, ad annullare un concorso già praticamente concluso in tutti i suoi passaggi senza avere la minima prova che l’anonimato sia stato effettivamente violato?

Nella fattispecie l’anonimato degli elaborati non sarebbe stato garantito a causa dell’eccessiva trasparenza delle buste che contenevano i nomi dei concorrenti, ma chi ha esperienza di concorsi sa che queste buste si aprono solo alla fine, dopo che gli elaborati anonimi sono stati valutati con l’assegnazione di un voto che ovviamente non può essere modificato.

I giudici hanno evidentemente supposto che qualcuno dei commissari non abbia rispettato questa regola o meglio che avrebbe potuto non rispettarla. Non solo: essi devono aver supposto anche che il commissario infedele, per così dire, abbia coinvolto (o avrebbe potuto coinvolgere) anche gli altri membri della commissione, dato che la valutazione è collegiale, nella ‘sistemazione’ dei voti di alcuni candidati identificati attraverso la lettura in trasparenza delle buste.

Per la verità se in ipotesi (anch’essa molto astratta) le cose fossero andate davvero così ci troveremmo di fronte a una specie di associazione a delinquere tra tutti i membri delle commissioni, responsabili di falsi in atti pubblici. Reati gravi che andrebbero provati, e non supposti.

Posto che è doveroso risalire alla responsabilità dell’ufficio che ha scelto buste trasparenti, bisogna chiedersi se è il caso di basare un concreto fatto giuridico (l’annullamento di una prova concorsuale) su una astratta presunzione di (possibile) malafede. In questo caso non può non venire in mente l’icastica massima del diritto romano “summum ius, summa iniuria”.