CENSIS: 39° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2005

Pur “nell’affiorare di schegge di vitalità economica”, il 39° Rapporto C.E.N.S.I.S. sulla situazione sociale del Paese ha evidenziato come il susseguirsi delle riforme, che hanno interessato il nostro sistema educativo, abbiano prodotto una “confusione di fini”, tale da contribuire ad alimentare una negativa percezione dall’esterno. Spinte contrapposte sembrano alimentare il mondo formativo, che, al contempo, può apparire attraversato da “grandi frenesie” o mostrarsi “immobile, lento nei risultati e nella realizzazione dei propri mandati”. Così, anche se gli ultimi “taselli normativi” sono stati approvati ed è stato avviato il necessario processo di armonizzazione ed integrazione con gli altri “partners” europei, si avverte il bisogno di “ristabilire un clima di fiducia” per evitare la sensazione “che la strada da compiere sia ancora in salita”.
Peraltro, il quadro di debolezza strutturale del nostro Paese, legata, sulla base delle previsioni demografiche, ad una scarsa presenza sul mercato del lavoro di leve giovani, che sappiano incidere sulla capacità innovativa del sistema economico e produttivo nonché sulla propensione al rischio, impone di prevedere concreti incentivi per il tramite della riqualificazione del “capitale umano”, disponibile nei prossimi anni, anche e soprattutto con crescenti iniziative di formazione continua, nella prospettiva di concepire l’educazione scolastica ed extrascolastica nel quadro del concetto chiave della fase formativa prolungatesi durante l’intero arco della vita, sia per fronteggiare il pericolo del cosiddetto “analfabetismo di ritorno” e sia per anticipare “esigenze, che, nel giro di un decennio potrebbero diventare una delle tante “urgenze” del nostro vivere collettivo”.
Tra gli impegni assunti come Paese membro dell’Unione Europea per il conseguimento degli “obiettivi di Lisbona” è previsto, del resto, che, entro il 2010, almeno il 12,5% delle persone sia coinvolto in attività di istruzione e formazione, rispetto al totale della popolazione in età compresa fra i 25 e i 64 anni.
I dati più recentemente elaborati dall’I.S.T.A.T. ci indicano, però, che è ancora lungo il cammino da percorrere al riguardo, atteso che la popolazione adulta attualmente in formazione raggiunge soltanto il 6,3% ed è distribuita in maniera fortemente eterogenea rispetto all’età e al titolo di studio, con un maggior coinvolgimento della fascia d’età compresa tra i 25 e i 44 anni e del segmento fornito già di diploma di scuola secondaria superiore o di laurea, a dimostrazione di una loro maggiore propensione al proseguimento degli studi. L’altro “gap” da superare al più presto è quello determinato dalla difficile relazione tra gli italiani e le lingue straniere. Una rilevazione, effettuata da Eurobarometro nel 2001, ha evidenziato che in media il 93% delle famiglie europee con ragazzi al di sotto dei 20 anni è consapevole dell’importanza di apprendere almeno un’altra lingua europea e che per il 74,2% la conoscenza delle lingue straniere consente di avere maggiori opportunità di lavoro. Analfabeta del 2000 sarà chi parla solo il linguaggio materno e nel processo europeo di abbattimento delle barriere economico culturali, connesso al principio della “libera circolazione”, la delicata problematica dell’insegnamento delle lingue straniere è stata considerata un elemento chiave della cittadinanza europea.
In tale ottica la Commissione Europea ha adottato per il triennio 2004-2006 un piano specifico per promuovere l’estensione ed il miglioramento qualitativo dell’insegnamento linguistico a tutti i livelli. Anche nel nostro Paese l’interesse è andato crescendo sia a livello istituzionale con la riforma in atto, che introduce l’obbligatorietà dell’insegnamento della lingua inglese fin dalla scuola elementare e di una seconda lingua nel secondo ciclo e sia con il proliferare di iniziative povenienti da un’amplissima varietà di soggetti: scuole private, Ctp, associazioni ed enti pubblici e privati.
Purtuttavia permangono “le difficoltà che gli italiani dimostrano nell’apprendere e nell’utilizzare le lingue straniere, tanto da considerarsi un popolo scarsamente portato per le lingue”, anche perché le competenze linguistiche sono soggette a rapida erosione se non esercitate.
Un aiuto al raggiungimento degli obiettivi dell’ “Europa della conoscenza”, fissati per il 2010 dal Consiglio europeo di Lisbona, potrà, invece, derivare anche dalla capacità del mondo produttivo, istituzionale e sociale di scommettere sull’universo femminile, che costituisce una fetta preponderante, ancora non pienamente valorizzata, del nostro capitale intellettuale.
Occorrerà vincere “la resistenza finora dimostrata dalle donne a mettersi in gioco al di fuori dei circuiti familiari” e forzare “il destino di impiegatizzazione senza carica innovativa”, cui la maggior parte sembra ancora destinata.
Le donne studiano di più, con minori difficoltà e a volte con risultati migliori dei loro coetanei: sono la maggioranza dei laureati (56,8%), provengono da studi liceali (74,6%), hanno conseguito ottimi voti (all’esame di maturità solo il 26% della componente femminile ha preso meno i 43/60, mentre tale quota sale al 26% tra gli uomini).
Eppure l’inserimento occupazionale risulta ancora non adeguatamente appagante e la delusione “post laurea” sembra una prerogativa soprattutto del gentil sesso, essendo correlata a differenti percorsi di studio e a scelte universitarie per lo più effettuate sulla base di inclinazioni personali non sempre mirate ad un inserimento lavorativo diverso dall’insegnamento. E’ più basa la propensione femminile al lavoro autonomo e allo sviluppo di forme di imprenditorialità mentre aumenta il loro peso nell’ambito del lavoro dipendente, parasubordinato e anche nell’ambito dei contratti di collaborazione, coordinata e continuativa, a progetto, occasionale.
E’ interessante notare che ben il 22% delle laureate non si riscriverebbe più al corso di laurea seguito, attribuendo la propria insoddisfazione alla quantità e natura degli sbocchi occupazionali offerti dal tipo di laurea conseguita.
Ne emerge rafforzata la centralità della funzione orientativa che, ponendo in essere un forte raccordo tra le realtà scolastiche, universitarie e del mondo del lavoro, riesca a consentire agli studenti scelte più consapevoli, favorendo l’adozione di corrette metodologie di studio, che li salvaguardino da deleterie perdite di tempo e di entusiasmo.
Certamente la risposta ad una serie di interrogativi espressi nel linguaggio delle nostre radici culturali (“quis”, “quid”, “ubi”, “quibus auxiliis”, “cur”, “quomodo”, “quando”) potrà guidare meglio i fruitori dei corsi nel labirinto decisionale, aiutandoli nell’inserimento occupazionale, che sempre più nei prossimi anni pretenderà dagli addetti la disponibilità ad un’ampia serie di adattamento alle innovazioni tecniche e la relativa facilità di conversione verso altri ambiti lavorativi.
All’istituzione scolastica, dunque, il compito di insegnare il gusto, l’arte di appendere con metodo (quello che i Greci chiamavano Tekne), al mondo produttivo quello di indirizzare, calandole nella realtà operativa, le capacità acquisite.