
Berlusconi-Fini. Quali conseguenze sulla politica scolastica
La scena politica della scorsa settimana è stata dominata dallo scontro pubblico, verificatosi all’interno della direzione nazionale del Pdl, tra i due cofondatori del partito, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini.
In più di un’occasione Fini non ha mancato di prendere le distanze dalle posizioni del governo o di qualche suo ministro su questioni da lui giudicate rilevanti sul piano dei principi. Lo ha fatto anche nel campo della politica scolastica, criticando apertamente, per esempio, ogni forma di discriminazione degli alunni stranieri e, recentemente, la proposta di concorsi e albi regionali per gli insegnanti, riservati ai residenti nelle singole regioni.
In passato, prima della confluenza nel Pdl, AN aveva mantenuto posizioni sostanzialmente conservatrici, bloccando alcune delle più rilevanti novità che il riformismo berlusconiano-morattiano delle “tre i” aveva messo in cantiere, a volte come ipotesi (per esempio la riduzione della scuola secondaria superiore a quattro anni), a volte come proposta (per esempio la formazione di due aree di effettiva pari dignità, una liceale e una tecnico-professionale, senza licealizzare l’istruzione tecnica), e a volte come decisione amministrativa (per esempio la formazione linguistica nella prima bozza di Indicazioni nazionali per il primo ciclo).
Dopo la confluenza nel Pdl è iniziata, da parte di Fini, la ricerca di nuovi temi e idee-guida, assai più orientati al futuro che al passato. Ciò può aver sconcertato una parte del tradizionale elettorato ex AN, ma ha anche aperto problematiche e prospettive nuove, più dinamiche. In questo quadro, e sempre che non intervengano fatti nuovi e traumatici (elezioni anticipate, scissione del Pdl, destrutturazione dell’attuale quadro politico e di alleanze), il contributo di Fini e dei “finiani” alla gestione, anche parlamentare, di alcuni delicati problemi di politica scolastica potrebbe essere importante. E non di segno conservatore.
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