Educazione alla relazione, valutazione e benessere a scuola. Novara: ‘Stare bene è la condizione per imparare’

Educare alla relazione, cambiare la valutazione, costruire un nuovo patto scuola-famiglia. In questa intervista, Daniele Novara – pedagogista, formatore e direttore del CPP – ci accompagna in una riflessione a tutto campo sulle priorità educative della scuola italiana. Tra approccio maieutico, benessere relazionale e ruolo dei conflitti, Novara richiama l’urgenza di una trasformazione profonda e concreta, che non passi per slogan ma per pratiche quotidiane. Perché “stare bene a scuola” non può più essere un lusso, ma la condizione di partenza per ogni apprendimento significativo.

Professor Novara, in un periodo in cui la scuola italiana è chiamata a gestire sfide complesse come l’inclusione, la dispersione scolastica e le nuove tecnologie, quale dovrebbe essere, secondo lei, la vera priorità per il prossimo anno scolastico? Da dove (ri)cominciare?

“Ogni periodo storico ha le sue sfide specifiche. In questo momento, nella scuola italiana, è partito un confronto molto acceso sul tema della valutazione scolastica, in particolare dopo le sperimentazioni delle scuole senza voti, che hanno avuto una certa eco in tutta Italia. Si è creata una tensione tra due visioni: da una parte, anche all’interno del Ministero, ci sono i sostenitori di una valutazione intesa come forma di controllo e punizione degli alunni, soprattutto nei confronti dei comportamenti più trasgressivi e oppositivi. Dall’altra parte, c’è una posizione più pedagogica, quella che sostengo anch’io, che vede la valutazione innanzitutto come formativa. Questa impostazione è già contenuta nelle disposizioni ministeriali di qualche anno fa e si può anche definire come valutazione evolutiva: una valutazione che tenga conto dei progressi e dei miglioramenti degli alunni, e non si fermi sugli inevitabili errori, che anzi fanno parte del processo di apprendimento. Su questo versante si gioca il futuro stesso della scuola. Da un lato c’è l’idea di una scuola intesa come training disciplinare, finalizzato all’adeguamento e all’obbedienza ai doveri sociali; dall’altro, la scuola come laboratorio di sviluppo delle risorse personali, delle competenze, e come luogo di costruzione di apprendimenti significativi”.

Famiglia e scuola sembrano oggi due mondi sempre più distanti, a volte addirittura in conflitto. Che ruolo possono giocare i genitori nella costruzione di un clima scolastico positivo? E cosa chiederebbe loro, realisticamente, di fare?

“La questione del rapporto con i genitori è tra le più equivoche in assoluto. Da un lato, si chiede loro di non interferire negli affari scolastici e di restare fuori perché l’ingerenza risulta controproducente, eccessiva e dannosa. Dall’altro lato, però, attraverso le comunicazioni, si continua a chiamare in causa i genitori, invitandoli a intervenire sui figli per correggere i loro comportamenti scolastici. Questa seconda richiesta è, in realtà, al limite del possibile, perché i comportamenti scolastici appartengono alla dimensione scolastica, e non possono essere gestiti attraverso una osmosi familiare. Dobbiamo smettere di chiedere ai genitori una collocazione scolastica che non è possibile. Non possono essere trasformati in collaboratori esecutivi della punitività docente, come invece pretende qualcuno con frasi del tipo: ‘Dovete raddrizzarlo, vostro figlio, altrimenti qui a scuola non possiamo far altro che sospenderlo’. Frasi del genere appartengono a un tipo di comunicazione di pancia, ma hanno pochissima efficacia reale. Il vero gioco di squadra con i genitori, come sostengo da sempre, consiste nel fatto che gli stessi genitori sappiano creare le condizioni affinché l’esperienza scolastica dei figli sia positiva.

Queste condizioni riguardano aspetti concreti e quotidiani.

Il sonno: un bambino di 4 anni che dorme solo 7 ore, uno di 6 che ne dorme 8, o un adolescente di 14 che ne dorme 5, non ha alcuna possibilità di avere l’esperienza scolastica in maniera adeguata e formativa. Conta anche la qualità della vita familiare, che non sia limitata alla fruizione passiva di contenuti virtuali come YouTube, PlayStation, videogiochi, smartphone o social, soprattutto di notte. Gli alunni devono poter sviluppare relazioni con i coetanei, magari attraverso lo sport, la musica, il teatro o altre attività significative. Insomma, una vita piena, ricca di stimoli e soprattutto non isolata. Infine la colazione, un elemento fondamentale, soprattutto per i più piccoli. Una giornata scolastica non può iniziare senza un apporto energetico adeguato. Bisogna prendersi il tempo per una colazione fatta bene, e su questo non sempre le famiglie sono organizzate.

Insomma, è un gioco di squadra, dove le funzioni sono diverse. I genitori non possono essere considerati degli assistenti disciplinari degli insegnanti: questo è un gravissimo equivoco”.

Lei parla spesso di approccio maieutico e di pedagogia del fare. Quanto conta oggi, nella crisi del sistema scolastico, l’assenza di una vera formazione sulle dinamiche relazionali per gli insegnanti? E cosa dovrebbe cambiare nella formazione iniziale e in servizio?

“Parlo spesso della ‘pedagogia del fare’, un approccio che ritengo ormai non solo acquisito, ma in molti casi anche riconosciuto come necessario. È evidente che la scuola fondata su lezione, studio, interrogazione appartiene a un modello del passato, legato più alla nostalgia e all’archeologia di una scuola selettiva, pensata per pochi alunni con le spalle coperte da famiglie ben predisposte e orientate. Oggi è urgente andare nella direzione di una scuola che potremmo definire, anche solo genericamente, montessoriana, in cui sono gli alunni a essere attivi, e non gli insegnanti parlare tutto il tempo. E invece, il metodo prevalente continua a essere quello della lezione frontale, e questo lascia davvero sconcertati. Il rischio, sempre attuale, è che gli insegnanti continuino a comportarsi come ex alunni in cattedra, più che come professionisti della relazione educativa e dell’organizzazione dell’apprendimento.
Nel mio metodo, che sperimento da oltre trent’anni e che ho descritto anche nel libro ‘Cambiare la scuola si può’, propongo una trasformazione realistica, attuabile con le norme esistenti, senza la necessità di rivoluzioni legislative o strutturali. Il cuore di questo approccio sta nella capacità dell’insegnante di creare contesti significativi, di usare situazioni stimolo per favorire il sorgere di domande vere, maieutiche, capaci di coinvolgere gli alunni in processi di ricerca. Di proporre laboratori maieutici per la costruzione di conoscenza e di accompagnare studenti e studentesse verso una sintesi personale e operativa di quanto hanno appreso.
Fondamentale è anche il tipo di valutazione, quella evolutiva. Una valutazione che parta da una prova d’opera iniziale, per comprendere i reali punti di partenza di ciascun alunno e, da lì, valutare i progressi compiuti, le trasformazioni, i miglioramenti. Non si tratta di una scuola delle risposte esatte, delle crocette giuste, ma di una scuola in cui l’errore non solo è accolto, ma diventa la base del processo di apprendimento, perché è attraverso il provare, il mettersi in gioco, l’applicarsi, che si costruisce davvero la conoscenza”.

Professor Novara, il convegno del 28 agosto nasce da un’urgenza sempre più evidente: perché oggi “stare bene a scuola” sembra diventato un obiettivo difficile? Quali sono, secondo lei, i principali nemici del benessere relazionale nei nostri istituti?

Sì, il convegno online di quest’estate si intitola proprio “Star bene a scuola. Come migliorare il clima della classe” ed è dedicato a insegnanti di ogni grado. Uno dei nemici principali del benessere relazionale nei nostri istituti scolastici è, senz’altro, l’idea che stare bene a scuola, avere amici, vivere le relazioni con i compagni come un elemento basilare dell’esperienza scolastica, sia in qualche modo una minaccia per la scuola dello studio, del rigore, della severità e del comportamento ‘adeguato’. Questa convinzione continua a permeare molti consigli di classe, soprattutto nelle fasi finali dell’anno scolastico, nella zona scrutini. Rimane come un retrogusto nelle discussioni: si sente dire spesso frasi come “non dobbiamo dargliela vinta”, oppure ‘non possiamo concedere troppo’, o ancora ‘la gita si fa solo se si comportano bene’. Questa cultura stantia, profondamente antipedagogica, va superata e abbattuta.
La base dello stare a scuola, per gli alunni, è la motivazione, e la motivazione nasce solo da un buon indice sociometrico, ovvero da un clima relazionale positivo. Viceversa, continuiamo a proporre una logica punitiva, come quella per cui si obbliga un alunno a stare in banco con un compagno antipatico, ‘così impara’. Ma cosa dovrebbe imparare, esattamente? In questo modo, la scuola torna a essere un’espiazione, qualcosa da sopportare.
Eppure, il termine greco “skolè”, da cui deriva la parola scuola, indicava proprio il tempo libero, il piacere, l’ozio creativo. La scuola dovrebbe essere un luogo in cui si vive l’interesse, la gioia, la felicità dell’imparare, non la sofferenza dello ‘studiare’. Se riusciamo a uscire da questa mentalità ereditata dai nostri antenati ottocenteschi, possiamo finalmente sintonizzarci con i ragazzi e le ragazze di oggi, che sono spesso molto dotati. Dovremmo permettere loro di collaborare, stare in relazione, vivere la scuola come uno spazio di compresenza sociale attiva. È così che possiamo costruire nuove possibilità educative, in cui non solo gli alunni stanno bene, ma anche gli insegnanti, che ritrovano il senso profondo del loro lavoro e la gioia di andare a scuola ogni giorno”.

Tra le proposte del convegno c’è quella di considerare il conflitto non come un problema, ma come un’occasione educativa. In che modo possiamo aiutare docenti e studenti a vivere i conflitti in modo costruttivo, soprattutto in un contesto scolastico spesso segnato da rigidità e burocrazia?

“Si tratta di tornare a quella scuola degli anni ’70, in cui la discussione tra alunni era la norma, non l’eccezione, e di farlo con uno sguardo nuovo. Una scuola capace di accogliere i litigi tra bambini non come trasgressioni da punire o come minacce al clima della classe, ma come occasioni di apprendimento. Apprendimento di cosa? Di come stare con gli altri anche quando ci sono contrarietà. Perché è proprio questo il miglio antidoto alla violenza. Come ricordava anche Umberto Eco, la violenza è la modalità più banale per gestire i problemi: eliminare chi ci intralcia, semplicemente toglierlo di mezzo. Al contrario, la cultura pedagogica del conflitto, come propongo insieme al il mio istituto (il CPP) da oltre quarant’anni, si basa sull’idea che si può comunicare anche quando ci sono divergenze e contrasti, a condizione però di saperlo fare. E quindi è necessario acquisire tecniche comunicative e comportamentali, che permettano di trasformare il conflitto in un’occasione di crescita, in uno scambio di punti di vista che arricchisce, che porta nuovi significati, che aiuta a vedere il problema da un’altra prospettiva. È su questa base che ho sviluppato il metodo ‘Litigare bene’, che ha avuto un successo enorme tra i bambini dai 3 ai 10 anni, non solo in Italia. I miei testi sono stati tradotti in molti Paesi del mondo e propongono un cambio radicale di prospettiva. È una svolta che sposta il focus dalla colpevolizzazione alla relazione: puoi comunicare le tue ragioni al tuo compagno, puoi spiegare come ti sei sentito, puoi ascoltare l’altro. Questo significa uscire da un modello in cui è sempre l’adulto a giudicare, e passare a una gestione del litigio come momento di autoregolazione, in cui i bambini possono confrontarsi usando strumenti concreti, come il gomitolo o il ‘conflict corner’, ben descritti all’interno del mio metodo.
Sono molto orgoglioso del lavoro fatto in questi anni, perché credo che questo sia uno dei contributi più liberatori che ho potuto offrire alla storia della pedagogia. Sottrarre il litigio infantile a una visione punitiva, per restituirlo a una dimensione maieutica, educativa e generativa”.

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