Pedagogia nascosta, impatto visibile. Riscoprire il valore delle ricerche educative per ripensare motivazione, valutazione e relazione

In un articolo pubblicato su TES il 31 luglio 2025, Mark Roberts, direttore della ricerca e insegnante di inglese alla Carrickfergus Grammar School nell’Irlanda del Nord, invita i docenti a esplorare una serie di studi meno noti ma estremamente rilevanti per migliorare l’efficacia dell’insegnamento e l’apprendimento in classe. Il contributo, sottolinea quanto sia importante non limitarsi alla lettura dei grandi classici della pedagogia, ma aprirsi anche alle ricerche emergenti che offrono spunti pratici e riflessioni preziose per innovare la didattica.

Sempre più spesso, la formazione professionale dei docenti è orientata dalla ricerca educativa, in particolare dalle scoperte nel campo della scienza dell’apprendimento. Si tratta di un’evoluzione preziosa, capace di rafforzare la pratica didattica con solide basi scientifiche, a patto che l’approccio sia critico, consapevole e flessibile. Tuttavia, la tendenza a concentrarsi esclusivamente sugli studi più noti, firmati da nomi affermati, rischia di limitare la visione di altri professionisti dell’educazione. Gli articoli più celebri sono senz’altro validi, ma trascurare le ricerche meno conosciute può significare perdere intuizioni preziose che, pur lontane dai riflettori accademici, offrono spunti operativi di grande valore per la pratica quotidiana dell’insegnamento.

Il potenziale del feedback negativo e l’equilibrio motivazionale

Uno dei nodi cruciali dell’apprendimento riguarda il modo in cui gli insegnanti forniscono feedback. Le ultime ricerche condotte da Carlton J. Fong mettono in luce la complessità del feedback negativo, spesso sottovalutata, e la tensione tra il bisogno di correggere e quello di sostenere. Criticare il lavoro di uno studente è un atto delicato, che può guidare verso miglioramenti cognitivi ma, al contempo, compromettere la motivazione intrinseca, se vissuto come un giudizio sull’identità dello studente e non come una guida per il miglioramento.

I nuovi studi evidenziano che l’efficacia del feedback dipende non solo dal contenuto, ma anche dal modo in cui esso viene comunicato: tono, contesto, relazioni pregresse e atteggiamento dell’insegnante sono tutti fattori che ne modulano l’impatto. Una critica formulata in modo empatico e accompagnata da indicazioni concrete su come migliorare è più facilmente percepita come un’occasione di crescita. Al contrario, un riscontro generico, impersonale o percepito come punitivo può generare frustrazione e rifiuto.

In un’ottica costruttiva, il feedback negativo dovrebbe essere accompagnato da strumenti metacognitivi che aiutino lo studente a decifrare l’intenzione educativa sottostante. Tecniche come l’autovalutazione guidata, le rubriche descrittive e i colloqui di chiarimento possono trasformare l’errore in una leva per lo sviluppo dell’autonomia. La relazione educativa, in questo contesto, assume un ruolo fondamentale: è la fiducia tra docente e studente a rendere il feedback un’occasione di trasformazione positiva.

L’errore come occasione di apprendimento

La ricerca Gabriele Steuer  pubblicata nel 2024, si concentra sulla percezione dell’errore tra gli alunni delle scuole primarie, rivelando quanto gli errori scolastici siano carichi di significati emotivi. Spesso, infatti, essi non sono vissuti come momenti naturali e utili del processo di apprendimento, ma come esperienze umilianti, capaci di generare ansia, vergogna e senso di inadeguatezza. Le emozioni che accompagnano l’errore non dipendono solo dalla personalità dello studente, ma in larga misura dalla risposta dell’insegnante, che può amplificare o attenuare tali reazioni.

Lo studio mostra come atteggiamenti punitivi, sarcasmo o commenti svalutanti generino un clima scolastico negativo e minino la fiducia degli alunni nella relazione educativa. In particolare, gli studenti più piccoli, ancora fragili nella costruzione della propria identità, possono sviluppare un senso di alienazione e di ritiro se sentono di essere giudicati per l’errore commesso, piuttosto che accompagnati nella comprensione dello sbaglio.

È fondamentale che l’insegnante sviluppi una pedagogia dell’errore, intesa come strategia intenzionale per costruire un ambiente che normalizzi il fallimento come tappa indispensabile del pensiero critico. Le ricerche sulle emozioni nell’apprendimento, tra cui quelle di Mary Helen Immordino-Yang, confermano che la sicurezza affettiva è condizione necessaria per il pensiero profondo. Un docente capace di accogliere l’errore senza giudizio apre la strada a un apprendimento autentico, dove la curiosità non viene frenata dal timore della punizione.

Apprendimento efficace e valore della variabilità

La pratica del recupero è, oggi, riconosciuta come uno degli strumenti più efficaci per consolidare la memoria a lungo termine. Consiste nel richiamare attivamente alla mente le informazioni apprese, invece di limitarne il semplice ripasso passivo. Tuttavia, la ricerca di Butowska-Buczyńska propone un’ulteriore riflessione, evidenziando come la variabilità degli stimoli durante le sessioni di recupero possa potenziare ulteriormente gli effetti benefici. L’introduzione intenzionale di cambiamenti nei contesti, nei formati delle domande o negli stili di esercitazione può rendere più solida e flessibile la rievocazione delle conoscenze.

Gli studenti che si sono esercitati con stimoli vari hanno ottenuto risultati migliori nei test, dimostrando una maggiore capacità di adattare le informazioni a contesti nuovi e complessi. Eppure, paradossalmente, molti di loro hanno percepito la pratica come più difficile e meno efficace. Questo effetto, ben noto in psicologia cognitiva, prende il nome di “illusione di competenza”: gli studenti tendono a preferire strategie fluide e familiari, anche se meno efficaci, e sottovalutano l’utilità delle tecniche più impegnative, che invece rafforzano l’apprendimento a lungo termine.

Per gli insegnanti, ciò rappresenta un invito a introdurre con gradualità e consapevolezza elementi di variabilità nei momenti di recupero, spiegandone apertamente il valore agli studenti. L’obiettivo non è aumentare la difficoltà fine a sé stessa, ma stimolare l’adattamento cognitivo, la generalizzazione dei concetti e la flessibilità mentale. Strategie come la rotazione delle domande, l’uso di quiz misti o l’applicazione dei contenuti a contesti nuovi possono sembrare più faticose, ma si rivelano decisive per consolidare l’apprendimento profondo e duraturo. In tal senso, la fatica cognitiva diventa un segnale positivo, una sorta di “muscolo educativo” che si rafforza proprio attraverso lo sforzo.

La gestione del tempo di attesa e il ruolo del silenzio

Un aspetto spesso trascurato ma essenziale della pratica didattica è la gestione del tempo di attesa dopo una domanda rivolta agli studenti. Janina Häusler, in uno studio del 2024, hanno analizzato il tempo di latenza tra la domanda dell’insegnante e la risposta dell’alunno, nel contesto di seminari accademici, mettendo in luce un elemento tanto semplice quanto sottovalutato: il potere del silenzio. I risultati mostrano come tempi di attesa più lunghi favoriscano riflessioni più articolate, formulazioni più ponderate e un aumento della partecipazione attiva. L’intervallo temporale tra domanda e risposta si rivela cruciale per stimolare la profondità cognitiva, poiché consente agli studenti di elaborare le informazioni, superare l’insicurezza iniziale e articolare con maggiore chiarezza i propri pensieri.

Tuttavia, nella pratica quotidiana, molti insegnanti tendono a colmare immediatamente i silenzi, spesso per ansia, insicurezza o per timore che il vuoto venga percepito come perdita di controllo. Questo comportamento, seppur comprensibile, rischia di compromettere l’efficacia della domanda stessa, rendendola un mero rituale anziché uno stimolo autentico al pensiero. La ricerca suggerisce che un’attesa di almeno tre-cinque secondi, se gestita consapevolmente, può fare la differenza tra una risposta superficiale e una riflessione significativa.

La pedagogia del silenzio non è una rinuncia al controllo, ma una forma di rispetto verso i tempi mentali dello studente. La scuola che insegna ad ascoltare il silenzio educa al pensiero lento, profondo e intenzionale. Anche qui, il ruolo del docente si trasforma da trasmettitore di risposte a facilitatore di domande, capace di dare spazio alla riflessione come strumento di autonomia.

Cultura della motivazione e influenza dei pari

Molte teorie sulla motivazione scolastica si focalizzano sugli aspetti individuali, attribuendo il successo o il fallimento scolastico a tratti personali come l’autoefficacia, la resilienza o l’interesse per la materia. Tuttavia, nei suoi studi, la sociologa Mieke Van Houtte evidenzia una dimensione collettiva spesso sottovalutata, ovvero l’influenza dell’ambiente sociale e culturale sulla disposizione degli studenti verso l’apprendimento. In particolare, i ragazzi appaiono più vulnerabili all’influenza del gruppo dei pari, soprattutto quando la cultura dominante nella scuola tende a disincentivare l’impegno, a stigmatizzare l’eccellenza accademica o a premiare atteggiamenti oppositivi.

Gli studi mostrano che anche studenti altamente motivati a livello individuale possono disimpegnarsi, assumere comportamenti disfunzionali o nascondere le proprie capacità pur di non contraddire le norme implicite del gruppo. Questo fenomeno è particolarmente diffuso negli ambienti scolastici in cui si sviluppa una cultura del disimpegno, in cui “studiare troppo” diventa sinonimo di isolamento sociale.

Un’efficace politica educativa dovrebbe, quindi, investire nella creazione di una “cultura della partecipazione”, in cui la collaborazione sostituisce la competizione e in cui l’eccellenza è vista come un traguardo accessibile a tutti. Le azioni educative orientate al gruppo, come il cooperative learning, la peer education e la costruzione di rituali scolastici condivisi, rappresentano strumenti utili per agire sulle dinamiche informali della classe.

Ansia da valutazione e clima di classe

L’ansia da valutazione è un fenomeno in crescita tra gli studenti, non solo in occasione degli esami finali ma anche durante le verifiche ordinarie. Uno studio di Aikaterini Vasiou ed Eleni Vasilaki, pubblicato nel 2025, invita a riconsiderare l’intero approccio alla valutazione in classe. Gli autori sottolineano l’importanza di ridurre la pressione associata alle verifiche, creando un ambiente rassicurante e prevedibile. È fondamentale offrire supporto agli studenti non solo all’ultimo momento ma lungo tutto il percorso, attraverso strategie che normalizzino l’errore e costruiscano fiducia. Questo lavoro è particolarmente utile per chi desidera promuovere un’idea di valutazione formativa, al servizio dell’apprendimento e non del controllo.

L’obiettivo non è eliminare la valutazione, ma restituirle la sua funzione educativa. Strumenti come le prove senza voto, le valutazioni narrative, l’autovalutazione e la co-valutazione non sono solo alternative metodologiche, ma segnali di fiducia verso lo studente, in grado di modificare in profondità la sua percezione dell’esperienza scolastica.

Il valore del processo, lezioni dallo sport per una scuola più umana

Pur essendo consapevoli delle differenze strutturali tra il mondo dello sport e quello dell’istruzione, non si può fare a meno di cogliere la portata educativa di alcune intuizioni provenienti dall’ambito sportivo. Lo studio del 2024 di Ollie Williamson, ad esempio, mette in luce un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: gli obiettivi più efficaci sono quelli centrati su ciò che è sotto il controllo dell’atleta o per estensione, dello studente. Gli autori mettono in guardia contro la tendenza a fissare traguardi fondati sul confronto sociale e sul superamento degli altri, sottolineando che questo tipo di orientamento conduce spesso alla frustrazione e all’insoddisfazione. Questo vale anche e soprattutto in ambito scolastico, dove molti studenti, spinti da aspettative esterne o dalla pressione del giudizio altrui, finiscono per misurarsi su criteri che sfuggono al loro controllo: il voto degli altri, il giudizio del docente, la media della classe.

Mark Roberts, direttore della ricerca presso la Carrickfergus Grammar School in Irlanda del Nord, ha osservato che molti studenti “si condannano alla delusione proprio perché cercano di controllare ciò che non possono controllare.” Questo approccio, orientato all’esterno, instabile, reattivo, mina la motivazione profonda e la fiducia nelle proprie capacità. Al contrario, un’educazione che insegni a fissare obiettivi personali, realistici e legati al proprio miglioramento quotidiano favorisce l’autoefficacia, la perseveranza e un rapporto più sano con l’apprendimento. La distinzione tra risultati e processo non è solo teorica, ma concreta. Quando lo studente si concentra sul proprio impegno, sulla progressiva padronanza di un’abilità, sulla capacità di reagire agli errori e correggersi, sperimenta una forma di controllo attivo che rafforza l’identità e la motivazione intrinseca.

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