Cinzia Pennesi: ‘Sogno una scuola che prepari i giovani, non solo al lavoro, ma alla vita’

Di Sara Morandi

Cinzia Pennesi è una figura di spicco nel panorama musicale italiano, nota per la sua eccezionale carriera come direttrice d’orchestra. Con un percorso formativo eclettico e appassionato, ha iniziato studiando pianoforte e ha proseguito con la composizione e la direzione, sia corale che orchestrale. La sua dedizione alla musica è un riflesso dell’insegnamento ricevuto dai suoi genitori, che le hanno trasmesso l’importanza di coltivare il tempo con cura e trasformarlo in un valore prezioso. La sua esperienza si arricchisce grazie agli incontri con grandi maestri e al costante dialogo con musicisti e pubblico, elementi che arricchiscono e danno respiro alla sua arte.

Pennesi è anche un’attivista convinta per i diritti delle donne nel mondo professionale. Ha ricevuto il Premio Marisa Bellisario e ha partecipato alla genesi della legge Golfo, promuovendo la parità di genere. Per lei, la diversità è una risorsa, e il linguaggio è uno strumento fondamentale per riconoscerla e rispettarla. Sogna una scuola che accenda la passione e valorizzi l’unicità di ogni studente, preparando i giovani non solo al lavoro, ma alla vita. Questa visione inclusiva ed educativa mira a formare cittadini liberi e consapevoli, capaci di apprezzare la bellezza e la responsabilità.

Qual è il suo percorso formativo nel campo della musica?

“Ho intrapreso il mio cammino nella musica studiando pianoforte, fino al diploma con il massimo dei voti. Poi, spinta da un desiderio profondo di comprendere ogni sfumatura del linguaggio musicale, ho proseguito con la composizione e la direzione: prima quella corale, poi quella orchestrale.
Essere direttore d’orchestra significa, prima di tutto, cercare armonia. È un gesto di bellezza che nasce dalla passione, quella che devo ai miei genitori, che ci hanno insegnato – a me, ai miei fratelli e sorelle – a coltivare il tempo con cura, trasformando il tempo libero in tempo prezioso. La formazione non si completa sui banchi, ma nei fortunati incontri della vita: quelli con i grandi Maestri, con compagni di viaggio straordinari, con il pubblico che ascolta e restituisce respiro alla musica. Perché la musica, da sola, non basta: ha bisogno di chi la suona e di chi la accoglie.
Essere il tramite di questa alchimia, in cui il suono diventa emozione condivisa, è un privilegio raro. Nel mio cuore custodisco esperienze che sfuggono alle classificazioni: il mio coro, che dirigo da più di trent’anni, è una famiglia. Gli incontri con Maestri come Franco Mannino e Neville Marriner, concertazione e direzione di opere stupende, la scrittura di musica per il teatro, le note condivise con i miei fratelli e sorelle musicisti, i sorrisi dei miei allievi.
E poi la vita fuori dal palco: la famiglia, un buon bicchiere di vino tra amici, una pedalata in compagnia, un buon silenzio in una faggeta. Sono questi i frammenti di musica più preziosi: quelli che risuonano dentro”.

Quali sfide ha affrontato Cinzia Pennesi come direttrice d’orchestra in un settore prevalentemente maschile?

“Ho compiuto gli studi come i miei colleghi uomini: stessi programmi, stesso repertorio, stessi esami.
Eppure, per anni, sono stata definita “direttore donna”, come se, nel pronunciare quel termine, si volesse sottolineare che il ruolo di direttore d’orchestra fosse inevitabilmente maschile.
Non sono certo la prima direttrice d’orchestra italiana: ne sono state tante, grandi e talentuose, alcune persino lontane nel tempo, come la pioniera Amman, che alla fine dell’Ottocento fondò un’orchestra tutta al femminile e la portò in tournée in tutto il mondo.
Tuttavia, più che discriminate, siamo state ignorate. La nostra arte, la nostra espressione, è stata spesso dimenticata, e con essa, la difficoltà di scrivere la storia delle donne nella musica. Il mio lavoro è anche questo: la ricerca di tutto ciò che può essere di riferimento nel passato affinché si modifichi quella narrazione che finora è stata solo la storia dell’uomo e non dell’umanità escludendo praticamente tutte le donne che diventano STRAORDINARIE nel momento che approcciano a qualcosa di maschile e cadono nel dimenticatoio perché non si studiano, non si eseguono, non si scrivono nei libri e a loro non si intitolano strade. E naturalmente mi impegno a scardinare quella convinzione diffusa per la quale il direttore d’orchestra è sicuramente maschio, un po’ scapigliato, austero, terribile, e si assimili l’idea che il maestro può essere anche una donna, una Maestra”.

Quanto è importante l’educazione musicale nelle scuole e come i docenti (anche non di musica) potrebbero utilizzare la musica come strumento complementare nell’insegnamento?

“L’orchestra e il coro sono pratiche collettive della musica che possono essere prese ad esempio meravigliosamente come strumento di organizzazione, sviluppo e innovazione sociale. La direttrice conosce la partitura per intero mentre il singolo musicista ha solo la propria parte e deve partecipare la propria visione, tenendo conto degli stimoli che giungono dalle parti e deve cercare di persuadere il gruppo ad intraprendere un cammino comune trattando i propri orchestrali come quadri preziosi ovvero metterli sotto la migliore delle luci. Se la direttrice si considera un mezzo e non il fine, non solo si otterrà un buon prodotto artistico ma si narrerà una bella metafora di un microcosmo di società ideale dove ognuno sa ascoltare, dove c’è il rispetto dei tempi degli altri e il risultato del gruppo è la cosa più importante insomma svolgerà quello che io chiamo Leadership Armonica . E questo modus operandi  si adatta benissimo ad ogni team leader ovvero ai docenti che, come in una orchestra, può trovare non solo i valori di rispetto dei tempi, ascolto e partecipazione ma attuare il sistema di produzione che ho realizzato nel progetto da me ideato e coordinato per Erasmus https://www.perfect-project.org/concept/  sperimentando che  tutte le materie  si possono insegnare come se si trattasse di una produzione di un prodotto creativo attuando quello che nella Musica è indispensabile e nella scuola può essere vincente: amare il viaggio oltre alla meta”.

Come descrive l’approccio delle donne nel campo della direzione d’orchestra e in altre professioni?

“Sono profondamente orgogliosa di aver ricevuto il Premio Marisa Bellisario nel 2009, un riconoscimento che, oltre a rappresentare un grande onore, mi ha dato un senso di responsabilità. Da quel momento ho avvertito l’impegno che questo premio impone. Le parole del nostro Inno, che sono fiera di aver scritto, risuonano in me con ancora più forza: “La partecipazione non è un privilegio, ma è la conquista della libertà”. Da quel momento, mi sono dedicata con convinzione a promuovere le capacità e le professionalità femminili, a valorizzarne il merito e il talento, e a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni. Un viaggio faticoso, ma che continuo con determinazione, per rendere giustizia a tutte le donne che ogni giorno contribuiscono al cambiamento. Tuttavia, ricevere il Premio, così come gli inviti a trasmissioni, le interviste e gli articoli sui miei concerti, mi ha fatto riflettere. Mi ha dato una conferma ulteriore di quanto la mia posizione fosse, in effetti, insolita. Non perché fossi meno brava o avessi meno esperienza – avevo già una carriera solida alle spalle – ma perché resistono ancora quegli stereotipi che ci relegano a una dimensione “diversa”, quella delle donne. La mia attività veniva raccontata, non tanto come una pratica artistica, ma quasi come un fenomeno sociologico. Ho avuto la fortuna di essere presente alla genesi e all’approvazione della legge Golfo, erroneamente definita “legge delle quote rosa”, che ha introdotto un’importante tutela di genere nell’accesso agli organi di amministrazione e controllo delle società quotate. Questa legge ha permesso al genere meno rappresentato, le donne, di ottenere una quota significativa – in Italia, partivamo dal 6%, contro una media europea del 30%.
Al di là degli effetti economici, la vera rivoluzione di questa legge è stata culturale. Ha finalmente messo sul tavolo un problema che è stato spesso ignorato e ha spinto a una riflessione su tutti i livelli. Quando si è iniziato a parlare di “quote” nelle aziende, c’era chi dubitava che ci fossero abbastanza donne qualificate per coprire i posti “liberati”. Così la Fondazione Bellisario ha raccolto oltre 2000 curricula di donne altamente qualificate. Non solo sono favorevole alle quote di genere nelle società, ma credo che dovrebbero essere applicate anche nei libri di testo scolastici che parlano delle scrittrici, poetesse e storiche, nei programmi dei concerti, per garantire la pari presenza di compositrici, e nei palinsesti televisivi. A chi mi dice che le quote umiliano le donne, rispondo che ciò che umilia veramente è una legge contro la violenza sulle donne, una legge che nessuna di noi avrebbe mai pensato fosse necessaria in un paese civile. Le discriminazioni tra donne e uomini esistono ancora, ma dobbiamo continuare a lottare affinché le differenze siano riconosciute come qualità complementari, dove la diversità venga celebrata, non temuta. Una diversità che deve essere vista come una risorsa, non come uno scontro, in nome di una giusta tutela dei generi.

Se esistono discriminazioni, vanno contrastate. E la prima, la più resistente, è ancora quella del linguaggio. Le parole servono per indicare ciò che abbiamo classificato, ciò che abbiamo accettato come reale. Se non vengo chiamata Maestra, è come se non esistessi.
Quando qualcuno mi dice che “suona male”, rispondo che la soluzione è mettersi in ascolto. Perché ascoltare non è la stessa cosa che sentire. Non si può amare ciò che non si conosce, figuriamoci ciò che non si ri-conosce”.

Che scuola sogna per il futuro dei nostri giovani?

“Ho vissuto la scuola come studente, come musicista, come formatore. L’ho osservata da dentro e da fuori, nella sua bellezza e nelle sue fatiche. Ma è nei volti dei giovani, nella loro energia e nelle loro domande, che ho trovato il vero senso dell’educare.
Da questo ascolto nasce il sogno di una scuola diversa: non un’utopia astratta, ma un desiderio concreto, radicato nell’esperienza e nello sguardo rivolto al futuro. Un’educazione che accende la passione, coltiva la creatività e dà valore all’unicità di ogni persona. Una scuola in cui l’apprendimento sia desiderio, non imposizione.
Dove si entri con curiosità e si esca con sete di conoscenza. Una scuola che sappia far nascere la domanda prima ancora di dare risposte, e che sappia riconoscere il piacere di apprendere come motore autentico della crescita. La creatività non è una materia in più, ma la lente attraverso cui leggere tutte le discipline.
Una scuola viva, in cui si inventa, si esplora, si sbaglia, si rielabora. Un luogo dove l’arte, la musica, il pensiero divergente siano strumenti per leggere e reinventare il mondo.
Ogni studente ha i suoi tempi, i suoi ritmi, le sue domande.
La scuola che sogniamo è uno spazio accogliente, che valorizza le differenze e insegna a rispettare il tempo dell’altro. Dove l’ascolto è un gesto educativo e il silenzio ha lo stesso valore della parola. Non serve riempire la mente di dati: serve nutrire l’intelligenza, la sensibilità, il senso critico.
La scuola del futuro deve aiutare ogni giovane a riconoscere il proprio talento, a coltivarlo, a metterlo a servizio di sé e della comunità. Il sapere è davvero tale solo quando diventa consapevolezza.

Una scuola che educa alla bellezza e alla responsabilità. La bellezza non si insegna, si mostra. Sta nei gesti quotidiani, nell’ambiente curato, nelle relazioni sincere.
Una scuola bella è una scuola che educa anche alla responsabilità: verso sé stessi, gli altri, la società, il pianeta.

Una scuola che prepara alla vita, non solo al lavoro. Preparare alla vita significa insegnare a pensare, a scegliere, a cooperare, a cadere e rialzarsi.
La scuola che immaginiamo non ha come unico obiettivo l’inserimento nel mondo del lavoro, ma la formazione di cittadini liberi, consapevoli e capaci di generare futuro.

Educare è un atto di fiducia. È seminare anche quando non si sa quando — o se — si raccoglierà.
Sognare una scuola nuova significa avere il coraggio di credere che ogni ragazza, ogni ragazzo, porta dentro di sé una musica unica, che attende solo di essere ascoltata e fatta risuonare.
Che la scuola possa essere lo spartito dove scrivere quella musica, giorno dopo giorno, nota dopo nota, con passione, cura e libertà”.

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