Gianni Rodari e il riso scatenato. Perché è necessario coltivare l’umorismo

di Vinicio Ongini

Sono cento gli anni di Gianni Rodari! Lo scrittore per ragazzi più conosciuto in Italia è nato a Omegna, in Piemonte, il 23 ottobre del 1920.  Ci sono quasi seicento scuole, soprattutto del primo ciclo dell’istruzione, intitolate al suo nome. Un nome molto amato dai bambini ma conosciuto dagli insegnanti, dai genitori e dai nonni . È l’autore per ragazzi più tradotto al mondo. Tutta la sua opera (compresa quella giornalistica) è stata raccolta in cofanetto (2000 pagine!) nella collana Meridiani Mondadori, riservata ai classici. Anche a don Milani era stato dedicato un Meridiano, presentato al Ministero qualche anno fa. In occasione del centenario è uscito anche un francobollo a lui dedicato e sono tantissime le iniziative di scuole e associazioni per ricordare in modo attivo il “Maestro della fantasia”. La Direzione generale per lo studente ha firmato un protocollo d’intesa con il Comitato per le celebrazioni del grande scrittore proponendo iniziative e concorsi di idee per promuovere la lettura e l’arte di inventare storie, con particolare attenzione ai contesti di maggior disagio sociale.

Ascolta le “Favole al telefono” di Gianni Rodari lette da Sergio Govi

Ascolta “Alice cascherina” di Gianni Rodari letta da Sergio Govi

Tre per dieci? Pasta e ceci!

”Il dialogo è ridere insieme”, scrive Rodari nei suoi appunti per un mini manuale del “dialogo” tra padri e figli, in Il Giornale dei genitori, n 1, 1970, p.9/12 (da lui diretto per quasi dieci anni) e prosegue: “La cordialità è più importante dell’autorevolezza, l’allegria più della scienza… è più importante farlo ridere che rivelargli chissà quali misteri: il riso è la cosa in più, il dono inatteso, l’aldilà della protezione e della sicurezza… Divertitevi con lui, divertitelo, arrivate alla molla del riso scatenato, senza più né senso, né misura, è una conquista i cui effetti dureranno per un tempo incalcolabile. Sono zio di un nipote liceale che mi piace, per il quale sono diventato un pochino un’autorità . Il rapporto tra questo zio e questo nipote è fondato sul riso. L’aver riso insieme, per liberarci di un mito, un tabù, un mostro sacro qualunque, è il motivo per cui mi ascolta”.

C’è un indizio interessante nel titolo dell’intervento di Rodari, ed è la parola “dialogo” messa tra virgolette. Perché? Per evidenziarla? O per prendere le distanze da una parola così diffusa, ingombrante, scontata? C’è forse dell’ironia (sicuramente c’è un po’ di grammatica) in quelle virgolette? Per segnalare la facilità o la superficialità con cui viene usata? La parola dialogo ha una radice antica, viene dal greco: dia (attraversare) e logos (parola). Attraversare le parole. Il dialogo è fatto di traversate tra sponde opposte. E di traduzioni, di ponti di parole, di tentativi di ponti, anche di ponticelli precari. Tutti sembrano d’accordo sulla parola “dialogo” e tutti la usano, per sostenere che il dialogo è necessario o per sostenere che è assente. È diventata una parola buona per tutti gli usi, ma astratta, non si sa bene di quali ingredienti è fatta. Rodari ci offre un altro punto di vista: dialogo è ridere insieme.

C’è quella sua affermazione così semplice e determinata: “la cordialità è più importante dell’autorevolezza…l’allegria più della scienza”. Ma come?: l’autorevolezza è una grande virtù, riconosciuta, viene spesso associata al comando, alla capacità di influenzare, di coinvolgere, è la declinazione positiva dell’autorità, mentre quella negativa si chiama autoritarismo. Eppure per Rodari, nella relazione tra padri e figli, è più importante la cordialità. Virtù della sociabilità, della relazione con l’altro, del vivere corale. Virtù piccola ma che ha attraversato i secoli con passo discreto. Perché la cordialità (e la sorella allegria), in  fondo, sono virtù dei forti o, che è lo stesso, di personalità che non devono attendere, o procurarsi altri riconoscimenti (politici, sociali, scientifici, professionali). Basta la patente di umanità. La cordialità contiene il voler bene, la simpatia per il prossimo.

Ridolini, Ridarella

Ma Rodari ancora un po’ davvero ci sorprende quando afferma: Il riso è l’aldilà della protezione e della sicurezza, arrivate alla molla del riso scatenato, senza senso né misura”. Il riso scatenato, “senza senso”, la ridarella incontrollabile, appartiene particolarmente all’infanzia ed appartiene al corpo. Sono tante le metafore  che insistono sulla dimensione corporea del riso e sulla scomparsa di ogni formalità: ci si piscia dal ridere, si ride fino a farsela nelle mutande, ci si piega in due dalle risate, ci si ammazza dalle risate, si ride fino ai singhiozzi, si ride a crepapelle, si scoppia dal ridere, si ride sotto i baffi, si piange dal ridere, si fanno grasse risate. L’uso delle parti basse del corpo collegato al riso è uno dei temi prediletti dai bambini. La risata che scoppia per un nonnulla nei gruppi di ragazzi è una celebrazione dell’essere insieme, pronti allo scherzo e alla derisione. Indice di complicità, di amicizia, è  scandito a volte da parole oscene o storielle scurrili che pescano nel basso corporeo (“il folklore osceno dei bambini”, lo definisce l’antropologo David Le Breton). Ed è anche un modo per esorcizzare le paure della trasformazione del proprio corpo, la paura delle diversità, della sessualità, di non essere normali. Rodari rielabora questo tema nella Grammatica della fantasia, nei due capitoli, Storie tabù e Pierino e il pongo, oltre che nell’articolo “Il bambino e il senso del comico” (Il giornale dei genitori, n.4, 1971): “Chiamerò tabù un certo numero di storie che personalmente trovo utile raccontare ai bambini ma di fronte alle quali molti arricceranno il naso. Esse rappresentano un tentativo di discorrere con i bambini o di cose che li interessano intimamente ma che l’educazione tradizionale relega in generale tra le cose di cui non sta bene parlare. S’intende che la definizione di tabù è polemica e che io faccio appello all’infrazione del tabù. Credo che non solo in famiglia ma anche a scuola si dovrebbe poter parlare di queste cose in piena libertà e non solo in termini scientifici, perché non di sola scienza vive l’uomo. Conosco anche i guai che toccano agli insegnanti che vogliono portare bambini e ragazzi ad esprimere i loro contenuti, a liberarsi di tutte le paure”. Le fiabe popolari hanno invece un rapporto più libero con le funzioni corporali e con la sessualità e Rodari, a partire dall’intreccio narrativo di Re Mida, storia della mitologia classica, ne inventa una moderna nella quale il re, liberato dal dono ingombrante di dover trasformate tutto ciò che tocca in oro, viene costretto a trasformare tutto ciò che tocca  in cacca, e la prima cosa che tocca è la sua macchina.

Scrive Rodari, in Grammatica della fantasia: “Quando vado in una scuola  spesso me la sento chiedere, mentre in classe serpeggia un’aria maliziosa I bambini vogliono sentirmi pronunciare quella parola e da come ridono  si capisce benissimo, poveretti, che non hanno mai potuto sfogarsi a pronunciarla di persona”. Ma la “ridarella”, lo scoppio di risa incontrollato, non appartiene solo ai ragazzi. La storica Mary Beard, nel saggio Ridere nell’antica Roma, usa questa espressione raccontando la storia di Dione, un giovane senatore che seduto in prima fila per assistere allo spettacolo nel Colosseo, di fronte alle ridicole esibizioni dell’imperatore Commodo, presentatore dell’evento, vestito da Ercole, strappa alcune foglie d’alloro dalla sua ghirlanda e le mastica per soffocare lo scoppio di risa che gli sta suscitando, pericolosissimo in quella situazione. Sarà capitato anche a voi, forse, di masticare al volo caramelle, per evitare analoga spiacevole situazione.

Chi ride a scuola, a tavola e a letto è matto perfetto!

L’educazione e la scuola, dove bambini e ragazzi  passano buona parte del loro tempo, hanno da sempre un rapporto non facile con il riso: “Uno solo poteva ridere mentre Derossi (il più bravo della classe) diceva dei funerali del re, e Franti rise. Io detesto costui, è malvagio, quando uno piange, egli ride”, (Edmondo De Amicis, Cuore). È il riso l’elemento che caratterizza la personalità del “cattivo” Franti.

Sono “riso scatenato” e parti basse del corpo i coprotagonisti del libro che racconta infanzia, crescita e formazione dei giganti, padre e figlio, Gargantua e Pantagruele, di Francois Rabelais, scritto a metà del 1500, libro dissacrante e sovversivo nei confronti della cultura ufficiale del tempo, e quindi osteggiato. Nello stesso secolo, in un’opera del 1530, Sulle buone maniere dei bambini, il filosofo e teologo Erasmo da Rotterdam istituiva una forma di civilizzazione del riso, definendo con precisione le modalità del saper ridere: “Lo scoppio di risa, cioè risa immoderate che scuotono tutto il corpo, non è decoroso, a nessuna età, ancor meno ai fanciulli… Il viso deve esprimere ilarità senza subire deformazioni né marcare un’indole guasta. Se accade qualcosa tanto suscettibile di risata bisogna coprirsi il volto con un fazzoletto….”.

Questa raccomandazione, coprirsi il volto con un fazzoletto, veniva in particolare impartita alle donne e alle bambine. Ridere per una donna era considerato sconveniente, sguaiato, perfino osceno. “Le donne non devono far vedere i denti”, dice un vecchio detto popolare, e Marina Vitale, nella sua relazione al seminario estivo della Società Italiana delle Letterate, tenutosi a Viterbo l’1/3 giugno 2018, intitolato Comiche!. Anche le donne ridono, scrive: “ L’’antico pregiudizio verso la risata femminile  è sopravvissuto, su di esso ha gravato per secoli l’interdizione etica e sociale. Anzi è invalsa l’idea, avallata da seriose teorizzazioni  filosofiche e scientifiche, che siano le donne le prime a non voler (a non saper) ridere e che manchino di senso dell’umorismo.” Quest’idea deve essersi sedimentata anche nelle fiabe popolari, sono diverse le principesse o figlie di re o di zar che non ridono mai,  finché il loro padre non mette una grande ricompensa, o la stessa mano della figlia, per chi saprà farle ridere. Alcuni esempi: nelle fiabe tedesche dei Fratelli Grimm, L’oca d’oro; nelle fiabe russe di Afanasiev, La principessa che non rideva mai; Quaquà! Attaccati là!, nelle fiabe italiane di Italo Calvino, da una variante popolare friulana: d’accordo padre, dice la principessa di questa fiaba, ma se uno ci prova e non  riesce a farmi ridere che gli sia tagliata la testa!

(dalla relazione al convegno nazionale, Una nuova civiltà dell’infanzia. Gianni Rodari e il Giornale dei Genitori: riflessioni per leggere il presente, Firenze, 19 novembre 2020, organizzato da Regione Toscana e Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario di Gianni Rodari (info: www.liberweb.it)