Se in cattedra sale chi non sa insegnare

Piccoli e grandi eventi occupano, alternandosi, una parte della prospettiva. Il caso, il tempo, le esperienze intervengono a modificare gli scenari, più o meno come il vento fa con le nuvole.

Sono una di quelle persone che, a quasi sessant’anni, ancora non ha imparato a dire “vado al lavoro”, ma ripete a se stessa e al mondo “vado a scuola”, accettando implicitamente che la propria vita alterni, con ritmi quasi fanciulleschi, pause estive e nuovi inizi.

La mia finestra sul mondo mi ripropone pertanto, ad ogni settembre, lo stesso paesaggio; e tale è la passione per  questo mestiere, che neppure l’ipotesi di una nuova DaD o le restrizioni dettate dalla pandemia riescono
a togliermi la voglia di ripartire.  Devo solo, come ogni volta, fare i conti con quella sensazione profonda di disagio che deriva dal sentirmi costantemente beffata: e non mi riesce proprio di dare altro nome a ciò che provo davanti alla sfilata di docenti annualmente reclutati e immessi nei diversi ordini di scuola con criteri per lo meno discutibili.

In un mondo scuola che potremmo definire “variegato” per usare un eufemismo, la cura e l’attenzione alla categoria dei docenti presentano palesi criticità in riferimento a due aspetti salienti: la formazione innanzitutto, quella iniziale e quella in servizio, e poi le modalità di reclutamento  e relativi criteri.

Il termine “balletto”, riferito alla fase di assegnazione delle cattedre e ormai sdoganato, tanto da essere utilizzato anche  in documenti autorevoli, è uno spettacolo che non ha in realtà nulla di divertente o di coinvolgente, almeno per chi ha una finestra sul mondo simile alla mia.

Intendiamoci, non è un problema riferibile al singolo docente, semmai alle coordinate all’interno delle quali l’insegnante si struttura professionalmente  e  al sistema che gli consente di inserirsi anche stabilmente nel mondo scuola con un bagaglio talvolta troppo esiguo,  spesso inadeguato, portandolo di fatto  anche a  credere che la conquista del “posto fisso” equivalga ad essersi ritagliato una sorta di  confort zone  dalla quale, a meno che non si imbatta in qualche Dirigente particolarmente esigente, nessuno lo strapperà più.  Siamo evidentemente di fronte ad un sistema che non funziona e non può  bastare semplicemente il coraggio di dirselo (ammesso che ci sia almeno quello).

La Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione 2019 della Commissione Europea al cap. 3 “Focus sugli insegnanti”, presenta una serie di sottotitoli che basta da sola a fotografare in maniera impietosa una realtà che ben conosco:

  1. L’Italia ha il corpo docente più anziano dell’UE
  2. Le procedure di selezione e assunzione degli insegnanti sono state modificate ripetutamente nell’ultimo decennio ma finora non sono riuscite a garantire un’offerta sicura di insegnanti qualificati
  3. Le limitate prospettive di carriera, unite a stipendi relativamente bassi rispetto a quelli di altre professioni altamente qualificate, rendono difficile attrarre i laureati più qualificati
  4. Vi sono carenze di insegnanti in alcune materie e regioni e un’offerta eccessiva in altre
  5. Lo sviluppo professionale continuo è definito per legge come un “dovere professionale” degli insegnanti, ma non esiste un numero di ore obbligatorio.

So perfettamente che si tratta di una fotografia assolutamente autentica.
E’ che io dalla mia finestra di settembre vorrei vedere altro. Preferisco di gran lunga la prospettiva del Rapporto finale, luglio 2020: idee e proposte per una scuola che guarda al futuro,  laddove si parla di una scuola che si muove e che sa parlare di grammatiche e di linguaggi diversi; una scuola che non ha paura dell’apprendimento digitale e ne riconosce la valenza; una scuola maieutica che non propone verità ma mette in condizione di costruirsi certezze;  peripatetica, perché esce dai suoi stessi muri.

Ma una scuola così non la costruisce un docente né un Dirigente. Una scuola così la costruisce una comunità: docenti imperfetti (quello sempre, mi raccomando!), ma con un alto profilo professionale dal punto di vista pedagogico ma anche riflessivo, progettuale, relazionale.
Non ci servono sanatorie né immissioni selvagge che svuotano graduatorie ma non riempiono di nuova energia le nostre scuole. Abbiamo bisogno che ci si prenda cura dei docenti, offrendo loro grandi opportunità ma dimostrando anche  il giusto rigore per formare figure di enorme responsabilità; serve formazione costante, articolata in modo duttile e laboratoriale, condotta da tutor autorevoli.

Ecco perché a settembre mi sento beffata.
Perché  mi si  racconta di una scuola che vorrei, ma non è ciò che vedo.

E allora io, che come tanti, ferma non so stare, continuo a guardare in un’altra direzione perché so che è quella giusta.
Sperando che qualcuno, prima o poi, si renda conto che se contemporaneamente si ipotizzano percorsi di Future Literacy per gli studenti ma si consente di insegnare a docenti che non hanno la più pallida idea di cosa significhi beh, allora non ci si può lamentare se le fotografie vengono sfuocate…