Lauree professionalizzanti: quel terziario professionale che non decolla

Sono 15, suddivisi in tre aree (Ingegneria, Edilizia e Territorio, Energia e Trasporti), le lauree professionalizzanti che saranno attivate a partire dal prossimo anno accademico 2018-2019 in 13 diversi atenei. Si tratta di corsi fortemente orientati al mondo delle professioni, che insieme agli ITS (Istituti Tecnici Superiori), varati nel 2013, costituiscono una nuova opportunità per chi si appresta a concludere le scuole superiori.

Per ora ai corsi di laurea professionalizzanti (due anni di formazione universitaria e un anno di esperienza sul campo tramite tirocini) potranno accedere solo 50 studenti, 750 in tutto. Un numero assai contenuto, da minisperimentazione, forse per evitare di ripetere il fallimento già registrato a suo tempo dai Diplomi Universitari introdotti dalla legge 341 del 1990 (fagocitati dai corsi di laurea ordinari), e anche per non porre questi percorsi in troppo aperta competizione con quelli proposti dagli ITS, che hanno caratteristiche diverse ma hanno in comune con i corsi universitari quella più importante, l’elevata probabilità (attorno all’80%: risultato già conseguito dagli ITS e target dichiarato anche per i corsi universitari) di trovare un’occupazione entro un anno dal conseguimento del titolo.

Nel complesso, tra ITS e nuove lauree professionalizzanti, sarebbero coinvolti poco più di 10.000 studenti all’anno, troppo pochi per poter parlare di una vera alternativa ai corsi universitari ordinari, che l’anno scorso hanno registrato più di 320.000 iscrizioni: il 3% contro il 97%. Secondo un recente studio di Confindustria, curato dal vicepresidente con delega al capitale umano, Giovanni Brugnoli, nei prossimi 5 anni mancheranno all’industria manifatturiera italiana 280.000 figure, definite “supertecnici”, proprio nei settori coperti da ITS e nuovi corsi professionalizzanti: meccanica, agroalimentare, chimica, moda e ICT. Evidentemente, anche se il problema riguarda anche altri Paesi (secondo l’Unione Europea serviranno in Europa complessivamente 800.000 nuovi tecnici specializzati in IT entro il 2020), il nostro è in grave, colpevole ritardo. Per responsabilità di chi?  Si tratta di una lunga storia, che ripercorriamo per flash.

Il terziario professionalizzante non universitario, assai diffuso all’estero – soprattutto nella citatissima (spesso a sproposito) Germania – in Italia è stato più volte ucciso nella culla da un kombinat formato da cattedratici sospettosi verso qualsiasi forma di contaminazione con il mondo delle imprese e apparati amministrativo-giudiziari conservatori e autoreferenziali: fu così una prima volta nel 1970, quando la sperimentazione di percorsi biennali per “superperiti” in sette istituti tecnici fu subito bloccata dalla Corte dei Conti che contestò la legittimità della spesa.

Non ebbe sviluppi nemmeno il progetto Brocca (1988-1994) che essendo centrato sulla despecializzazione dell’istruzione secondaria implicava la creazione di una fascia post-secondaria professionalizzante non universitaria, mentre i corsi IFTS (Istruzione e formazione tecnica superiore), nati alla fine degli anni novanta, prevedevano una complessa partnership tra scuole, università, enti locali e centri di formazione professionale, così complicata da impedirne il decollo in termini significativi.

Ancora, nel corso del 2003, il ministro Moratti costituì un gruppo di lavoro con il compito di promuovere, partendo da una quindicina di sedi, una rete nazionale di 60 istituti superiori aventi finalità e ordinamento speciali, denominati “Istituti Superiori Sperimentali di Tecnologia” (ISST), che avrebbero dovuto rilasciare un titolo equipollente alla laurea di primo livello. Tentativo anch’esso bloccato, a distanza di pochi mesi, dalla mancanza di certezze organizzative e finanziarie e soprattutto dall’esplicita opposizione del mondo universitario a veder riconosciuti titoli di istruzione superiore diversi da quelli da esso rilasciati.

Ora tocca a ITS e lauree professionalizzanti, che coinvolgono però, come abbiamo visto, un numero ristrettissimo di studenti. Il terziario professionale in Italia insomma non decolla, ed è sicuramente anche per questo che il nostro Paese ha il più basso numero di laureati in Europa insieme alla Romania.