Università/3. La via maestra è l’autonomia

Tra tutte le voci ascoltate in occasione del convegno indetto dal gruppo senatoriale del PDL a Roma lo scorso 14 luglio, la più rivoluzionaria è sembrata quella di Nicola Rossi, non a caso rimbeccato dai molti baroni presenti in sala, come abbiamo riferito la scorsa settimana: l’attuale università italiana, secondo Rossi, non è costruita per premiare la concorrenza, il merito, la specializzazione semplicemente perché la sua autonomia è finta. Non c’è vera assunzione di responsabilità, con i connessi rischi (anche di fallire e di chiudere), da parte delle università.

Se si accetta questo punto di vista anche le misure, pur in sé positive ma limitate, come quelle assunte dal ministro Gelmini, non sembrano in grado di scalfire lo zoccolo duro dell’università italiana, che è fatto di uniformità dei titoli rilasciati, prevalenza del metodo cooptativo/clientelare nel reclutamento, copertura pubblica di gran parte dei costi, interferenze politico-amministrative nella scelta delle sedi e così via.

La via maestra per uscire da questo sistema ingessato ci sembra quella di introdurre in esso veri elementi di autonomia, a partire da quella economica, magari attraverso l’aumento delle rette, come proposto da Francesco Giavazzi ancora sabato scorso nell’editoriale del Corriere della Sera; il superamento delle attuale forme di retribuzione dei docenti e dei ricercatori, che prescindono dal loro valore; una più ampia e più facile mobilità dei docenti, anche su base contrattuale, e altre misure che esaltino la capacità imprenditiva delle singole sedi.

Si può capire che misure di questo genere, applicate tutte insieme e a tutto il sistema, comporterebbero forte discontinuità con gli assetti esistenti, e quindi grandissime, forse insuperabili resistenze. Ma perché, allora, non provare a sperimentarne qualcuna in qualche situazione più favorevole e matura? L’importante è muoversi in questa direzione, e non lasciare che la sortita meritocratica della Gelmini sul 7% del FFO resti un isolato grido nel deserto.