Università/1. Quel titolo non più desiderato

Da dieci anni la popolazione universitaria italiana decresce, dopo l’effimero boom di iscritti registratosi nei primi anni duemila a seguito dell’introduzione del 3+2, e la percentuale di diplomati che si iscrive all’università è inferiore al 50%, cui andrebbe sommato il 15% di coloro che si iscrivono ma non fanno esami o si ritirano dopo uno o due anni.

Le ragioni del fenomeno sono state a lungo indagate e sono molte, ma una su tutte sembra prevalere sulle altre, nel senso che spiega meglio il trend negativo delle iscrizioni: la forte perdita di attrattività dei titoli universitari, dovuta al fatto che essi non “rendono”: non vale la pena e la spesa di dedicare anni al conseguimento di lauree alle quali non è collegato né un forte differenziale retributivo rispetto ai diplomi di scuola secondaria né quell’aumento di visibilità e prestigio sociale che in un tempo ormai lontano costituivano di per sé uno stimolo sufficiente ad impegnarsi negli studi superiori.

Eppure non sono mancati in questi anni studi e ricerche – a partire da quelle della Banca d’Italia e del suo presidente Visco per arrivare ai Rapporti di Almalaurea – che hanno spiegato che comunque gli studi superiori “rendono” non tanto e non solo sul piano della convenienza economica individuale quanto – nel medio e lungo periodo – su quello di una migliore qualità della vita per i singoli e soprattutto per la società nel suo complesso.

Una sorta di miopia collettiva, favorita da una insufficiente presa di coscienza del problema da parte della classe dirigente italiana – politica e non – ha tuttavia finora impedito di ri-valutare l’importanza (e la convenienza) degli studi superiori. Ma è essenziale che ciò avvenga, e al più presto.