Tra algoritmo e vita: la lotta per la cattedra di una docente precaria

Pubblichiamo di seguito la lettera di una nostra lettrice, una docente precaria sballottata tra l’ultimo concorso docenti e l’algoritmo.

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Sono le cinque di mattina, ascolto la pioggia, tanto non mi riaddormento. In famiglia stiamo attraversando una situazione difficile, davvero, perché poi, oltre alla scuola, c’è anche quella, la vita. E a trentaquattro anni è possibile che la vita riservi delle prove complesse, si faccia più dura, perdiamo qualcuno che ci è caro, oppure tiriamo le somme e non sempre tutto torna. C’è la vita e c’è la scuola. Ieri l’algoritmo ha girato, questo sistema disumano che in tanti abbiamo provato a denunciare: un meccanismo che processa numeri e assegna cattedre, definisce i futuri nove mesi, nove, dei precari, le assegna per mail, in una giornata dove il cellulare diventa un’arma preziosa. Lo lasci sul tavolo ma sai sempre dov’è, a volte provi a dimenticartelo e lo riprendi fremente. Dopo sei anni, il mio cellulare non ha suonato. Nessuna mail.

Sono precaria dal 2018, sulla A019, prima ho fatto il dottorato in storia, quello che oramai si è ridotto nella mia mente a un “titolo culturale” che (non sempre) vale dodici punti. Ho lavorato per non essere precaria, ho fatto il concorso ordinario del 2022, di cui ho già detto, allora ho perso un treno importante, lo sapevo. Il concorso, allora, abilitava, bastava fare 70 allo scritto. Hai perso un treno, ma cosa fai, molli? I loro sguardi, le discussioni, le lotte? Non puoi. La pelle si indurisce e vai avanti. Il concorso straordinario, quello successivo, non ho potuto farlo: zero cattedre.

Nel 2023 esce il concorso PNRR: uno stillicidio di prove, lo scibile da sapere, un orale difficile. Il concorso va bene, prendo 98 e 100 nelle due prove. Ma stanno ancora esaminando, di graduatoria si parlerà a ottobre o novembre. Questo concorso, ovviamente, non è abilitante. Incostituzionale, tragico, reale. Ho studiato 9 mesi, ho rinunciato a domeniche, a vacanze, mi sono chiusa nello studio, mi sono persa tante cose che amavo. Per cosa? Un “brava”, alla fine di tutto. Forse ho perso anche questo treno. Ma questa volta in un modo ancora più assurdo.

Provo anche il TFA, anche in quel caso va bene, ma ancora nessuna graduatoria.

E poi arriva ieri: non ottengo nessuna cattedra. Scrivo disperata al sindacato. La sindacalista non risponde, chiedo aiuto ovunque “l’algoritmo mi ha saltato”, scrivo all’Usp. Conserverò sempre il messaggio di un’altra sindacalista che mi scrive “sono in vacanza, chiama domani in ufficio. Però noi chiediamo l’iscrizione al sindacato. Vedi tu”. Il tessuto che dovrebbe proteggerci si è sfaldato, la solidarietà, l’empatia e il contatto, li ho trovati solo in altri colleghi, veri compagni in armi. Le istituzioni, anche quelle demandate ad aiutarci, rispondono con sufficienza. “Non eri urgente” mi ha risposto la mia sindacalista, mi sarebbe bastato un “Spiega, che è successo. Vediamo di fare etc”. Ma cosa protesto a fare? Siamo soli. E su questo mi sento di pontificare. 

Un’altra spallata del sistema. Brancolo nel buio dall’Usp ancora nessuna risposta. Aspetto la pubblicazione del bollettino delle nomine che avviene alle ore 20.00. È tutto il giorno che aspetto, sono stanca. C’erano cattedre a A019 ma sono andate agli abilitati del concorso ordinario del 2022. Ma le cattedre del sostegno? Perché sono così poche? Mi viene il panico. Mi ero ripromessa alla sesta volta di non dare peso a queste nomine, che qualcosa avrei preso, avendo lavorato sempre. Nelle scuole che avevo messo tra le preferenze ci sono pochissime cattedre. La nuova graduatoria del sostegno, altra ultima invenzione, calcola solo il titolo di accesso e i titoli di servizio, non calcola i titoli culturali, ci si può accedere se si hanno tre anni di sostegno, minimo. In quella graduatoria, nuova, sono andata in fondo, così non ho preso nulla. Avevo messo poche scuole, troppo poche. Ritorno a quando ho fatto 150 preferenze, che abbiamo fatto prima di ogni cosa, senza sapere la posizione in graduatoria, senza sapere le disponibilità di posti, andando solo a istinto. E il mio istinto era quello dato dall’esperienza: metto le mie scuole, non voglio cambiare di nuovo, per la sesta volta. Ricordo che era il giorno dopo il matrimonio, ero felice, leggera. La scuola rischia anche di farmi attaccare quella donna, appena sposata, che entrava in una vita nuova, felice e speranzosa, ma questo non glielo permetterò. Sono cresciuta.

Come possiamo andare dietro alle cattedre conservando una qualche speranza? Come possiamo andarci senza? Come possiamo andarci ridotti a schiavi di un sistema che ci uccide? Ridotti a burocrati o a censori? Oppure a “scienziati”, disperatamente attaccati a un sapere autoreferenziale, ritirati da ogni relazione, impunemente egoriferiti e pronti a giudicare tutto e tutti?  Beh, è allora che veramente facciamo danni gravissimi, scollegati dagli studenti e dalle studentesse che abbiamo, inaciditi, abbarbicati sopra un voto, o peggio, sopra la nostra autorità, diamo il peggio di noi.

Quanti, quanti ne ho visti di questi tipi. Ma io no, io mai. Né io, né noi. Quelli come me che resistono. Noi accusiamo. Accusiamo un sistema che uccide, che schiaccia il merito, che appiattisce e ingoia. In sei anni ho visto la scuola crollare e non possiamo permettercelo. Non possiamo perché lo dobbiamo agli studenti e alle studentesse, lo dobbiamo al nostro domani e all’oggi che incalza. Non possiamo, ma accadrà, sta già accadendo.

Marta Giusti

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