Superare umanisticamente la dipendenza da chat e cellulari nutrendo le virtù relazionali di alunni, genitori e docenti

Le diverse evoluzioni della messagistica tra cellulari e dispositivi elettronici di vario tipo hanno raggiunto livelli difficilmente immaginabili alcuni anni fa. Voglio riflettere brevemente su questa tematica dal punto di vista di un dirigente scolastico che vuole realizzare nell’ambiente scolastico una comunità di cui desidero essere sempre più coscientemente organizzatore non paternalisticamente, ma umanisticamente promotore di relazionalità vitale e incentrata sulle persone, sugli sguardi, sui volti.

L’utilizzo di strumenti noti a tutti noi quali WhatsApp, Telegram e simili risorse è certamente utile in quanto aumenta le possibilità di relazioni e di rimanere in contatto con le persone che ci circondano in ogni momento della giornata, a prescindere dal luogo in cui ci si trova. Inoltre è molto semplice e utile per l’organizzazione di incontri o di eventi mediante la possibilità di creare gruppi ad hoc, sia per il tempo libero che per il lavoro. Tale utilizzo è cresciuto moltissimo negli anni della pandemia e costituisce ormai comunemente un supporto sociale in momenti di solitudine, se voluto dalla persona, non di meno è gratuito, e perciò maggiormente fruibile. Permette di inviare foto, audio, immagini, oltre chiaramente al testo, con cui condividere significati con chi si vuole, quando si vuole.

Purtroppo tali preziosi strumenti hanno una doppia faccia: oltre alla facilità e rapidità di utilizzo, la presenza sociale, il divertimento di condividere con gli altri varie tipologie di contenuti e il vantaggio economico, c’è il lato oscuro di tali strumenti, un lato che, ispirandoci ad alcuni autori che se ne sono occupati in questi ultimi tempi tra i quali Luciano Floridi, Nick Bostrom (più critico), Ray Kurzweil (più ottimista) e altri specialisti dell’interazione tra intelligenza umana e strumenti informatici, possiamo affermare che sia corrispondente a un disagio e ad una compressione della sfera delle capacità relazionali, emozionali e più in generale mentali.

Una significativa parte del nostro tempo di vita, privato o lavorativo, viene passato scrutando il cellulare, sperando di vedere che, in nostra assenza, il numero di messaggi in attesa di essere letti siano diversi da zero. Questo fornisce una percezione di quanto le altre persone ci hanno cercato, desiderato, o hanno voluto condividere con noi qualcosa. Tale attesa o curiosità di controllare quasi costantemente i messaggi in arrivo, può depotenziare un’altra nostra capacità, ovvero l’attenzione verso cosa stiamo facendo, sia in ambito lavorativo che in ambito relazionale (nel mondo reale).

Un tale strumentario ben noto a tutti noi influenza quindi sia la nostra capacità di concentrazione, ma soprattutto la nostra capacità di dedicarci con verità e reale coinvolgimento al rapporto con l’altro, sviluppando o recuperando la pratica di un vero ascolto e una vera condivisione, che attualmente viene sovente interrotto per scrutare l’altro mondo, quello virtuale.

Quando si inviano contenuti, strumenti come WhatsApp permettono di monitorare lo stato dei nostri messaggi: se inviato, arrivato al destinatario e visualizzato dal destinatario. Quando il messaggio risulta visualizzato e subito arriva la risposta, nessun problema. Ma cosa succede se la persona a cui abbiamo scritto non risponde? I sentimenti più comuni sono quelli di rabbia, ansia e frustrazione, dati dall’insicurezza personale e dal dubbio su cosa stia effettivamente facendo l’altra persona, dove si trovi e con chi. Ciò dipende anche dal fatto che siamo assuefatti ad una comunicazione immediata e perciò il tempo di attesa, di accettazione di una risposta, si abbassa vorticosamente, fino quasi a pretendere un’azione immediata di risposta. Forse è questa una delle cause della crescente situazione di aggressività, verbale e non verbale, che si manifestano in questo proliferare di chat tra genitori e alunni come possiamo riscontrare in questi ultimi mesi a scuola, luogo d’elezione per il costituirsi della socialità.

Riflettere sulla socialità originaria è un affidabile e realistico metodo di valutazione inclusivo dei temi propri della contemporanea etica delle virtù (distinta dai filosofi morali in virtue ethics e virtue theory) che offre la possibilità di una interpretazione non rivolta semplicemente alla riconsiderazione di modelli antichi di felicità della persona ma propositiva e aperta al confronto con le dottrine filosofiche che si sono confrontate più a fondo con i temi della secolarizzazione e del multiculturalismo.

L’idea di inclusione e l’apertura al dialogo con l’alterità, anche la più remota, sono costitutive del paradigma multiculturale e pluralista o anche iperpluralista[1] proprio del XXI secolo. Questa constatazione e questa costruttiva prescrizione implica la considerazione della potenzialità della relazione originaria, del dono che viene prima della valutazione, dell’anteriorità dell’etica sulle diverse forme di esistenza. Le forme di esistenza comportano il riconoscimento di scopi che sono anche dei beni, verso i quali si volgono le inclinazioni. Finnis[2] individua sette beni fondamentali per la felicità umana: la conoscenza, la vita, il gioco, l’esperienza estetica, l’amicizia, la religione e la ragionevolezza pratica. Questi, indeducibili e indimostrabili, sono le condizioni per lo sviluppo e la realizzazione, in una parola per conseguire la fioritura (flourishing) delle persone.

A scuola abbiamo dovuto prendere l’iniziativa di alcuni provvedimenti anche drastici per limitare l’aggressività crescente nelle nostre classi, contattando più volte le autorità preposte a tutelare la nostra sicurezza per comportamenti sconsiderati e pericolosi messi in atto da minorenni che a volte seguono il pessimo esempio dato dalle loro famiglie.

Ci giunge poi notizia di aggressività crescente nelle sempre più pericolose chat tra genitori, in cui la comunicazione vera e sincera viene sostituita da insinuazioni, allusioni, uso di parole intrise di violenza e discriminazione nei confronti dei più deboli.

Personalmente sarei felice del superamento di tali modalità alquanto primitive di relazione, in favore di incontro e scambio di sguardi e parole al posto di algidi messaggi colorati da infantili emoticon, risibili se utilizzate da adulti che dovrebbero essere d’esempio ai loro figli.

In questo è possibile incrociare la tematica del paternalismo liberale, moderato o meno, con la ricerca contemporanea in tema di esemplarismo etico. Quest’ultima potrebbe fornire alcune linee di condotta fondate su psicologia morale e pedagogia non oppressiva ma promozionale che potrebbe utilmente integrare la riflessione con una concezione di flourishing come scopo della società che voglia concretamente sottrarsi a logiche di dominio. Zagzebski ad esempio nel suo ultimo volume[3] sviluppa la sua teoria morale a partire dall’emozione dell’ammirazione usando esempi che mostrano una linea di condotta da seguire, sfuggendo alle logiche di dominio. I nostri genitori e i nostri docenti dovrebbero fare propria una nozione non semplicistica di esemplarismo, mostrando con il loro agire di adulti relazionalmente maturi una non dipendenza dello schermo, una non assuefazione che non può essere data per scontata in una realtà di fatto assuefatta come la nostra, ma che può essere costruita con un impegno quotidiano recuperando le relazioni vere, lo sguardo, il volto.

Il paradigma dell’etica delle virtù cui prima facevo riferimento ha sviluppato un convincente modello di antropologia relazionale che preserva efficacemente una concezione liberale e repubblicana della micropolitica delle relazioni nella quotidianità in quanto preserva efficacemente la dignità degli individui osservando le dinamiche delle inclinazioni e la possibilità che esse diventino abiti virtuosi e quindi vie verso l’autorealizzazione e la felicità conseguente. Tra gli autori più recenti mi limito a ricordare le filosofe inglesi e americane che perseguono questa ricerca in modo sistematico e originale quali Rosalind Hursthouse, Iris Murdoch, Nancy Snow, la già menzionata Linda Zagzebski.

Non serve eliminare l’utilizzo di queste e delle altre messaggerie istantanee, demonizzare l’utilizzo del cellulare o lamentarsi passivamente di come le relazioni con gli altri siano cambiate. E’ però necessario da parte di tutti comprendere che oltre a una relazione che ormai sfiora il patologico con il telefono cellulare siamo circondati da un mondo reale, un mondo fatto di persone che ci invitano a una vita reale di interazioni non istintive o gestuali, ma di parole e vere emozioni, un mondo che ci invita a una vita attiva e sociale, condivisa con gli altri, magari anche riflettendo sul fatto che anziché reagire in modo istintivo o rabbioso a una notazione fatta da un docente, un compagno di classe, un genitore, un adulto, una persona in generale, ognuno di noi ha l’obbligo di ascoltare se stesso, valorizzando anche momenti di sana solitudine.

Dipende da ognuno di noi realizzare in primo luogo nell’ambiente scolastico di cui noi dirigenti dobbiamo essere sempre più coscientemente organizzatori non paternalisti ma umanisti promotori di relazionalità, creare e mantenere un soddisfacente livello di comunicazione e di contatto con gli altri, integrando un uso consapevole, limitato alla sua effettiva necessità e il più possibile razionale dello smartphone con la bellezza della quotidiana relazione con le persone che compongono la trama di relazioni di cui è costituito il nostro mondo reale.

 

 

[1] Si veda al riguardo A. Ferrara, The Democratic Horizon. Hyperpluralism and the Renewal of Political Liberalism, New York, Cambridge University Press, 2014.

[2] J. Finnis, Natural Law and Natural Rights, Oxford University Press 1980; 2nd ed 2011.

[3] L. Zagzebski, Exemplarist Moral Theory, Oxford University Press, 2017.

 

*Dirigente scolastico

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