Solo lo stupore conosce: una sfida difficile, ma non impossibile
Uno dei principali compiti della scuola è trasformare l’esperienza comune in esperienza culturale ed educativa e, in questo, un apporto fondamentale lo forniscono le discipline di studio, non a caso definite anche come “strumenti culturali”. Ma come intendere il loro ruolo?Tradizionalmente sono considerate soprattutto per le conoscenze che le caratterizzano e che, attraverso l’insegnamento, vengono trasmesse. Quando, però, la scuola pone al centro della sua attenzione lo sviluppo delle competenze cambia il punto di vista, e viene messo in luce in particolare il loro contributo metodologico, che le vede soprattutto come strumenti di educazione del pensiero. In questa prospettiva l’alunno non è il destinatario di una trasmissione, ma il protagonista di una ricerca. Ne abbiamo parlato all’interno dell’inserto de La Scuola che Sogniamo dedicato alla scuola della ricerca e pubblicato nel numero di dicembre di Tuttoscuola.
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Le parole, alla loro origine, nascondono significati profondi, spesso molto distanti dall’uso che abitualmente se ne fa. Chi lo direbbe che studente significa “amante”? Eppure il significato di studium è proprio questo: amore, passione. In latino studère significa, infatti, “aspirare a qualcosa, prediligere, amare”, così come studium rimanda a “zelo, passione, desiderio, cura”. Ecco perché lo storico Tacito, proponendosi di essere obiettivo, affermava di voler scrivere “sine ira et studio”, cioè senza animosità e spassionatamente.
A questo bellissimo e sorprendente significato del termine studio l’Enciclopedia Treccani ne aggiunge altri due:
a. cercare, impegnandosi con le proprie capacità ed esperienze, di risolvere qualcosa di nuovo, di diverso, di non noto;
b. osservare, indagare, esaminare per conoscere.
È così che percepiscono lo studio oggi gli studenti? Ed è così che intendono gli insegnanti? La didattica invita alla ricerca, chiede agli studenti di misurarsi con qualcosa di nuovo, accende in loro la passione?
Sarebbe bello poter rispondere di sì, ed effettivamente in molti casi è così, ma sappiamo che non è questa la regola. In effetti non è facile lasciarsi alle spalle una tradizione lunga e consolidata di insegnamento frontale, liberandosi dalla preoccupazione di esaurire un programma sempre troppo carico di nozioni. È pur vero che le Indicazioni nazionali, tanto del primo quanto del secondo ciclo, pongono lo sviluppo delle competenze come termine di riferimento per tutte le discipline, aprendo così la strada a modalità didattiche che, proprio perché centrate sulle competenze, non possono che essere di tipo attivo, esplorativo, problematizzante.
La didattica per competenze rappresenta il superamento della didattica trasmissiva, apre la strada alla ricerca come metodologia di lavoro, aiuta a ridare allo studio il suo più autentico significato.
Passare dal modello della lezione frontale a quello della ricerca centrata su problemi non significa trascurare le discipline, ma, al contrario, valorizzarne l’apporto, intendendole non come silos che custodiscono le conoscenze, ma come strumenti di indagine della realtà. Proprio di questo abbiamo parlato in maniera dettagliata nel numero del La Scuola che sogniamo dedicato alla scuola della ricerca e pubblicato nel numero di dicembre si Tuttoscuola.
Abbiamo parlato della scuola della ricerca nell’inserto de La scuola che sogniamo pubblicato su Tuttoscuola
La scuola della ricerca è il modello che abbiamo presentato a dicembre all’interno del nostro progetto “La scuola che sogniamo”.
Nell’inserto pubblicato all’interno del numero 607 dicembre di Tuttoscuola troverai i seguenti approfondimenti sulla scuola della ricerca:
– Solo lo stupore conosce. Una sfida difficile, ma non impossibile, di Italo Fiorin
– La ricerca didattico-pedagogica nella scuola dell’autonomia, di Giorgio Cavadi
– Un’UdA per lo sviluppo delle competenze multilinguistica e imprenditoriale, di Carla Sacchi
– Il coding unplugged nella scuola dell’Infanzia, di Mikol Kulberg Taub
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