
La scuola che i nostri ragazzi si aspettano, un luogo di ascolto, cura e crescita reciproca

Parlare di scuola, didattica e riforme è fondamentale, ma troppo spesso si perde di vista il cuore pulsante di questa istituzione: gli studenti. Ho riflettuto molto su quanto la Professoressa Daniela Lucangeli descrive come “ingozzamento cognitivo”. Mi chiedo spesso quanti dei nostri studenti vivano la sensazione di dover “digerire un pasto abbondante quando non hanno fame”. L’immagine del cervello come un frigorifero da riempire mi porta a pensare a quanto siamo ancora legati a un “flusso unidirezionale di nozioni che i ragazzi devono inghiottire senza poterle elaborare”. Questo, purtroppo, porta spesso a un “apprendimento passivo a breve termine e non apprendimento intelligente”. La cosa più preoccupante è che “l’accumulo non è apprendimento”; se le conoscenze non vengono trasformate in competenze utili, rischiano di diventare “spazzatura che il nostro cervello butterà via”. La nostra scuola, talvolta, è ancora troppo prigioniera del modello “Io insegno, tu apprendi, io verifico”, trascurando quella cruciale dimensione “da dentro a dentro” che permette l’elaborazione interna e lo sviluppo personale.
Come sottolinea la Professoressa Luigina Mortari, un indicatore del livello di civiltà di una comunità è dato dall’attenzione riservata all’educazione. Attraverso una buona pratica educativa, gli adulti favoriscono nei giovani lo sviluppo delle competenze necessarie a disegnare e realizzare il proprio cammino esistenziale. Tuttavia, quello che accade oggi al processo educativo scolastico è di subire un’interpretazione riduttiva, piegata a logiche prestazionali. In un’epoca mercantile e utilitaristica come quella attuale, si tende a ridurre il significato dell’educazione all’attrezzare i giovani di quelle strumentalità tecniche utili per l’accesso al mercato del lavoro. Certo, acquisire competenze spendibili rappresenta un obiettivo importante e costitutivo dell’atto formativo, ma il senso dell’agire educativo non può essere ridotto a questo aspetto.
Educare, dal latino “educere”, include tra i suoi significati, oltre a coltivare e allevare, anche l’avere cura di promuovere nell’altro il pieno fiorire delle sue potenzialità, affinché sia in grado di avere cura di sé, degli altri, del mondo delle istituzioni e del mondo naturale. Siamo esseri incompiuti, fragili, vulnerabili e necessitanti di cura. Educare è avere cura dell’altro affinché apprenda ad aver cura della vita. L’essere umano non dispone della sapienza dell’esistere, deve apprenderla. Apprendere l’arte di vivere significa apprendere i modi per avere cura della vita. L’educazione è un’azione, una pratica, che si prende cura di procurare all’altro il meglio per il suo esserci. Il processo educativo può essere concepito come cura del divenire possibile dell’essere dell’altro, che si attua nell’allestire contesti esperienziali che intendono facilitare il pieno fiorire della sua umanità. Ogni essere umano è quello che fa, e quello che uno fa dipende da quello che può fare, cioè dalle sue proprie potenzialità. Queste potenzialità dipendono in larga misura dalle esperienze che uno vive. L’educazione è offerta di quelle esperienze che sappiano far fiorire le potenzialità dell’esserci.
Non posso poi non sentire l’eco delle parole del Ministro Valditara. È fondamentale la sua sottolineatura sulla necessità che noi insegnanti ci prepariamo ad affrontare la “fragilità dei nostri ragazzi, riconoscendo che la scuola deve essere un luogo che valorizza le potenzialità di ciascuno”. Questo significa andare oltre, prestando “particolare attenzione alla continuità didattica e alla promozione del benessere degli studenti”. Dobbiamo però essere seriamente “formati per riconoscere e rispondere alle diverse esigenze degli studenti”, siano esse difficoltà di apprendimento, problemi emotivi o sociali, o altre sfide che influenzano il loro percorso.
E proprio qui si inserisce il grido d’allarme, che mi ha toccato profondamente, lanciato dai nostri studenti. Nel libro “Scritture e Confronti – Incontri Itineranti nelle Scuole” a cura di Nicola Serio, pubblicato da Armando Editore, 2025 è stata data voce finalmente agli alunni dell’Istituto Superiore “Tonino Guerra” di Cervia (Ravenna) e dell’Istituto di Istruzione Superiore “Leonardo da Vinci” di Cesenatico (Forlì-Cesena); ancora prima del diffondersi delle recenti contestazioni l’autore Nicola Serio è stato “precursore” del malessere e del disagio degli studenti manifestatesi durante la prova orale degli Esami di Stato . I giovani intervistati lamentano che la pressione dei docenti può motivare per dare il massimo, ma anche generare ansia, stress, un senso di autovalutazione basato solo sui risultati. Vogliono essere riconosciuti come individui unici, con esperienze e percorsi personali distinti. Parlano di “diversi casi di forte turbamento, se non di aperto disagio o di grave demotivazione, i quali possono talvolta spingere a contemplare anche il gesto estremo”. Questo è un messaggio che non possiamo ignorare. Ci ricordano il “valore umano della scuola” e ci dicono chiaramente che “è finito il tempo degli insegnanti che rigettano categoricamente ogni forma di contatto umano con gli studenti”. Il loro appello è per un rapporto “che non può più consistere unicamente nell’impartire un insegnamento ma deve spingersi oltre e coinvolgere entrambi in uno scambio reciproco, adempimento pieno del ruolo educativo”. Ci chiedono, in sostanza, di fare di più oltre a insegnare. Non di trasmettere semplicemente nozioni, ma di ascoltare, di attrezzarci per andare incontro alle loro fragilità. Ci implorano di “guardare la scuola con gli occhi dei ragazzi”. Il nostro compito, ci dicono, è “occuparci prima di tutto della persona”. Desiderano una scuola che “coltiva l’intelligenza emotiva accanto a quella logica”, che “valorizza i progressi più che le lacune, accoglie il fallimento come un’opportunità di crescita”. La fiducia, in questo contesto, diventa il “terreno fertile su cui si costruisce un apprendimento autentico”.
Siamo ad un bivio. La domanda di Daniela Lucangeli risuona forte: “Stiamo preparando i ragazzi al futuro o li stiamo addestrando a sopravvivere nel presente?”. Dobbiamo “cambiare paradigma, passare dalla performance alla persona”. Questo significa, in pratica, “ripensare il carico cognitivo, integrare il piacere di apprendere, dare spazio alla creatività e al tempo per riflettere”. La scuola deve diventare un luogo “dove ciascuno scopre il proprio potenziale, non un percorso ad ostacoli che solo pochi superano indenni”.
Al centro del nostro agire “non dobbiamo mettere la prestazione, ma lo studente”. Dobbiamo “cambiare radicalmente il nostro approccio”. La scuola deve diventare un luogo in cui “si possa stare bene”. Se non tocchiamo il cuore, la mente non ascolta! È tempo di alzare lo sguardo, di agire, di essere “alleati dei nostri ragazzi nella loro crescita”. Il futuro non si aspetta, si crea. E dobbiamo iniziare adesso. Con l’ascolto, con l’empatia, con la consapevolezza che il nostro ruolo va ben oltre la trasmissione di conoscenze e di contenuti. Mettiamo al centro l’esperienza, organizziamo laboratori di esperienza, costruiamo comunità di discorso, facciamo della scuola una palestra di cittadinanza responsabile e critica e interpretiamo l’agire educativo come cura. Il nostro è un ruolo di cura, di guida, di accompagnamento nella scoperta e nello sviluppo della persona nella sua interezza. Non possiamo più sottrarci!
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