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Roberto Fini: luci ed ombre della literacy economico-finanziaria

Roberto Fini, docente di economia politica nell’università di Verona-Vicenza, interviene nel dibattito stimolato da Tuttoscuola con l’articolo qui di seguito riportato. Invitiamo i lettori interessati a inviarci le loro opinioni su questo tema (o su altri da proporre), scrivendoci come di consueto a botta_e_risposta@tuttoscuola.com o intervenendo direttamente online tramite la piattaforma Disqus in calce alle notizie o attraverso la nostra pagina Facebook.


Ho seguito con attenzione e interesse il dibattito sull’educazione economico-finanziaria fin qui sviluppatosi su questo spazio. Senza alcuna pretesa di definire un punto fermo, ed anzi augurandomi che il flusso di idee continui e si arricchisca, provo ad aggiungere qualche ulteriore spunto di discussione. A questo punto potrebbe essere una buona idea provare a stabilire lo “stato dell’arte”, sebbene la situazione appaia, positivamente, in progress.

In primo luogo c’è da notare il forte interesse per la literacy economico-finanziaria: alcuni ritengono (per esempio L. Zingales) che la crisi sia originata dalla insufficiente conoscenza dei meccanismi finanziari da parte della maggioranza delle persone. In effetti vi sono molte prove di questo dato di fatto, ma d’altra parte è stato dimostrato (per esempio da Legrenzi) che anche gli operatori specializzati spesso cadono in banali tranelli. Personalmente non credo che la crisi possa essere attribuita a questo tipo di ignoranza, anche se ovviamente vi ha contribuito.

È pur vero che molte ricerche attestano la scarsa conoscenza economico-finanziaria: in Italia nell’indagine sui bilanci delle famiglie condotta da Banca d’Italia sono state inserite alcune domande miranti ad accertare il grado di conoscenza dei rispondenti su questioni che hanno a che vedere con le scelte economiche. E quanto risulta non è certo confortante. Anche in altre indagini internazionali l’Italia non esce bene rispetto alla literacy economico-finanziaria, ma occorre aggiungere che tale problema sembra essere generalizzato. Peraltro, tutte le indagini presentano un tratto comune: tra le migliori proxies del grado di (il)literacy economico-finanziaria è il livello scolare raggiunto dal rispondente. Quanto più esso è alto, tanto più le risposte sono esatte.

Sarebbe interessante per il futuro indagare sul modo attraverso cui il livello scolastico incide sulla capacità di risolvere problemi di natura economico-finanziaria: dipende da curriculi disciplinari specifici orientati all’economia, oppure contano in misura maggiore le competenze generaliste messe in campo dal rispondente per risolvere tali problemi? Nell’indagine PISA 2012 sono contenute anche domande miranti a verificare la literacy in campo economico-finanziario: è sperabile che i risultati della ricerca, la cui pubblicazione è prevista per il prossimo dicembre, permettano di incrociare il dato sulla literacy con il numero più alto possibile di variabili, tra cui il tipo di scuola frequentato dal rispondente  (è altresì sperabile, come sembra, che nella prossima edizione del PISA vengano mantenute domande miranti ad accertare la literacy in questione).

Torniamo all’Italia: nel Paese la situazione si presenta al tempo stesso preoccupante ma anche interessante: benché un numero non irrilevante di studenti nel corso della loro carriera scolastica abbiano “incrociato” discipline di natura economica in maniera non banale (si pensi ai tecnici commerciali), dalle, poche, ricerche non sembra che questo abbia effetti rilevanti sulla carriera universitaria successiva. In effetti gli studenti provenienti dai licei non mostrano performances inferiori rispetto agli studenti dei tecnici commerciali riguardo agli esiti in discipline specifiche quali l’economia politica o l’economia aziendale.

È possibile che i risultati non soddisfacenti degli studenti degli istituti tecnici, che pure hanno almeno sulla carta un bagaglio tutt’altro che banale di competenze economiche, derivi da un’architettura non soddisfacente dell’organizzazione disciplinare. Certamente il fatto che l’economia politica venga insegnata dallo stesso docente di discipline giuridiche non si giustifica né dal punto di vista scientifico né da quello didattico. È quanto ha sostenuto di recente T. Boeri in questo stesso spazio. E non senza ragione: del resto già Sylos Labini, molti anni fa, si chiedeva la ragione di tale accorpamento (senza peraltro trovare risposta…). Boeri sostiene che il passo indispensabile sia la separazione dell’economia rispetto al diritto: certamente una tale scelta sarebbe opportuna, ma non sembra oggi realisticamente realizzabile in quanto vi cospirano contro le tradizioni culturali che a suo tempo ispirarono la strutturazione delle classi di concorso e la difesa corporativa che una tale scelta scatenerebbe.

Fa bene Boeri a porre sul tappeto il problema, anche perché questo consente di riflettere sulla natura scientifica, epistemologica e didattica di discipline che fra di loro hanno ben poco in comune, ma occorre essere consapevoli che poco si può fare nel sistema italiano su questo versante. Piuttosto conviene riflettere, per superarla,  sulla concezione “ancillare” dell’economia politica rispetto al diritto (e rispetto all’economia aziendale) che caratterizza la pratica didattica di molti docenti. Un aspetto, questo, che appare maggiormente alla portata di chi vuole rivendicare l’importanza della didattica dell’economia nel sistema scolastico: per esempio, laddove fosse possibile, il dirigente scolastico potrebbe affidare ad un docente l’insegnamento della sola economia politica e ad un altro l’insegnamento del diritto. Sarebbe possibile, senza per questo incidere sulla sacralità della classe di concorso, anche se personalmente dubito che molti dirigenti scolastici abbiano il coraggio di farlo…

Situazione preoccupante, dicevo, ma anche interessante agli occhi di chi osservi il grado di diffusione della cultura economica nel sistema scolastico italiano: nell’ambito del riordino dell’ordinamento liceale è stata da poco introdotta l’opzione economico-sociale come articolazione del liceo delle scienze umane. Per ora si tratta di un indirizzo gracile e poco diffuso, ma non è detto che non possa crescere e si rafforzi, sia sul piano dei numeri che su quello, ben più importante, della qualificazione dei contenuti, e dunque della sua qualità didattica.

Nonostante oggi riguardi un numero esiguo di iscrizioni (negli ultimi rilevamenti meno del 2%), costituisce però un passaggio importante: per la prima volta in Italia l’insegnamento dell’economia politica esce dall’ambito “tecnico” entro cui era confinata per riassumere un significato complessivo e si fa parte della cultura generalista. E non è poco! Certamente i problemi restano: la classe di concorso resta la stessa e il pericolo che l’insegnamento venga affidato ad un docente con una pratica didattica tipica degli istituti tecnici (e, sia ben chiaro: on y soit qui mal y pense!) è un rischio reale.

Su questo ed altri aspetti che abbiano a che fare con gli stili didattici, l’aggiornamento docente resta indispensabile. Di recente il MIUR, insieme a partner quali l’Associazione Europea per l’Educazione Economica e la Fondazione Rosselli, ha organizzato quattro seminari territoriali destinati ai dirigenti scolastici e ai docenti di istituti nei quali è presente l’opzione economico-sociale: un bel passo avanti, dal quale è necessario partire per ulteriori sviluppi. In effetti è necessario rafforzare il contenuto generalista della disciplina, chiarire i suoi rapporti didattici con discipline certamente prossime ma differenti quali quelle dell’area umanistico-sociale, ragionare sui contenuti comuni dell’economia con le discipline quantitative e le scienze “dure”.

Il processo è appena all’inizio, ma il dibattito che ha preso le mosse su questo spazio promette di dare buoni risultati ed è indispensabile che proceda con altri qualificati contributi.

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