Perché non farò più il commissario d’esame

Non farò più il commissario di un esame di Stato basato, come quello attuale, sui soli professori interni. Per i seguenti motivi.

Primo. Perché non è un esame. E’ il duplicato di una verifica già effettuata durante l’anno e riproposta senza il vantaggio di un riscontro alternativo. Ad una settimana dalla chiusura di scuola, gli stessi insegnanti sono chiamati ad esaminare di nuovo gli stessi alunni sugli stessi argomenti.

Secondo. Perché mi sento parte in causa. Infatti, chi esamina il proprio operato é indotto ad assumere atteggiamenti di complicità fino al modifica dei voti, anche nelle prove scritte.

Terzo. Perché non si può entrare in dissonanza con se stessi. Gl’insegnanti interni hanno già realizzato, nel tempo, un giudizio globale sui ragazzi e non lo correggeranno in nessun caso. Durante gli esami saranno presi – ai limiti della comicità – dall’ansia che le valutazioni d’esame corrispondano con quelle precedenti. E se – parlo in modo provocatorio – il migliore della classe, per un qualsiasi motivo, consegnasse le tre prove in bianco, ho buone ragioni di credere che si farebbe in modo di promuoverlo lo stesso e di promuoverlo con il massimo. Né al meno bravo sarà mai concesso di salire oltre un certo limite.

Quarto. Perché non me la sento più di assistere, ogni volta, alla ripetizione dell’imbarazzante rituale delle prove scritte. Di far finta di non vedere e di non sentire, né la conversazione – talvolta sistematica – né il resto. A meno che non preferisca essere accusato d’insensibilità e durezza. Di scarsa capacità di adattamento. O di eccessiva identificazione nel ruolo.

Accusa sommamente temuta in una stagione di eclissi valoriale e di pensiero debole, in cui è più funzionale al sistema chi cede all’andazzo che chi propone principi.

 

Luciano Verdone
Docente di Filosofia – Teramo