Licei di quattro anni/3. Si può se si punta sulle competenze

In Italia, come del resto in Europa, si è molto parlato di ‘competenze’ negli ultimi venti anni, tanto che il termine è stato usato in testi e contesti normativi, come quelli scolastici, nei quali in precedenza non era stato mai impiegato.

Il punto di svolta si è avuto nella seconda metà degli scorsi anni novanta, con l’ingresso del termine nella legge n. 425/97 di riforma dell’esame di maturità (affiancato a ‘conoscenze’ e ‘capacità’), nel DPR 275/99 (Regolamento dell’autonomia), e poi via via in numerosi altri provvedimenti, in genere con il significato ad esso attribuito in sede Ocse e UE di “capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale” (definizione adottata nell’EQF-Quadro europeo delle qualifiche).

Le ‘Indicazioni nazionali’ riguardanti i piani di studio dei percorsi scolastici – in modo più accentuato quelli dell’istruzione tecnica e professionale, ma non solo quelli – sono state scritte o riscritte in modo da evidenziare le caratteristiche (contenuto, ampiezza, livello di complessità) delle competenze attese al termine dei diversi corsi di studio.

Non sta scritto in alcun documento europeo o di altre organizzazioni internazionali in che modo o in quanti anni tali competenze debbano essere raggiunte. Ci sono Paesi in cui la scuola secondaria superiore dura quattro anni (USA), tre (Francia) o addirittura due (Spagna). Da noi cinque. Ma se una scuola, nel quadro di una autonomia didattica e organizzativa effettiva, riuscisse a far raggiungere in quattro anni anziché in cinque il livello di competenze indicato a livello nazionale per la conclusione degli studi, perché dovrebbe esserle impedito?