La didattica nella scuola dell’emergenza Covid 19. Riflessione di una Dirigente Scolastica

Di Paola Cardarelli

Il lockdown della scorsa primavera è stato per il mondo della scuola uno stress-test severo dal quale tutto sommato e piuttosto sorprendentemente il sistema educativo italiano è uscito rafforzato: i docenti, tranne ovviamente qualche eccezione, si sono impegnati in uno sforzo collettivo e generoso per recuperare il ritardo nelle competenze tecnologiche con risultati molto apprezzabili.

La spinta che ha guidato gli insegnanti e lo slancio che hanno tutti mostrato verso i nuovi strumenti si fonda in realtà su un paradosso: nel lockdown le TIC sono apparse come  l’unico strumento a poter garantire ciò che in realtà sembravano aver sempre negato. Il rapporto umano, la relazione con il discente, la qualità affettiva del lavoro scolastico.

La radicata riluttanza della classe docente italiana[1] ad acquisire una consapevole competenza informatica è stata in parte fondata, o perlomeno giustificata, proprio dall’assunto che la tecnologia proporrebbe una scuola “fredda”, meccanica, alla quale mancherebbe la qualità specifica umana, la componente relazionale. Con tutti gli alunni e i docenti in isolamento, invece, proprio gli strumenti telematici  sono apparsi in grado di garantire  il contatto e di preservare, seppure in una forma “liofilizzata”, la relazione, la componente affettivo-relazionale dell’azione educativa.

Questa premessa e questo paradosso spiegano un fenomeno che ha colpito chi nel mondo della scuola è abituato a registrare una certa lentezza o addirittura una inamovibilità della mentalità e delle forme e metodologie di insegnamento.

Questa volta il cambiamento e il movimento sono stati notevoli con un impatto di cui potremo verificare gli effetti solo nel medio periodo: ciò che non era riuscita a fare la legge 107 con l’ambizioso progetto di digitalizzazione, il PNSD, è riuscito a fare il Covid 19.

Cionondimeno il recupero del gap tecnologico, che ha permesso alla scuola  di fronteggiare e superare l’emergenza, ha messo in evidenza alcune fragilità del sistema, alcuni nodi irrisolti soprattutto sul piano della didattica, della pratica di apprendimento-insegnamento quotidiana. L’uso degli strumenti multimediali, la novità della loro introduzione, infatti, non garantiscono automaticamente un impianto metodologico adeguato e innovativo per il quale la DaD e la DDI possano aspirare ad essere efficaci alternative al lavoro in classe, alla didattica in presenza, che, non vogliamo negare, resta comunque setting insostituibile per i vantaggi in termini di sviluppo delle soft skills che offre e della socialità che permette.

Come suggerisce G.Roncaglia[2], didattica dell’emergenza e didattica digitale non sono sovrapponibili, non possono essere equiparate e è necessario anzi che proprio ora la scuola si interroghi sul modo in cui la multimedialità potrà opportunamente essere  sfruttata come scelta metodologica strategica di una scuola  che intenda puntare in modo stabile al successo formativo di tutte le sue studentesse e di tutti i suoi studenti.

In molti casi infatti computer e tablet sono stati utilizzati come semplici schermi su cui riproporre la lezione frontale, le regole della didattica trasmissiva[3]. L’esempio più significativo riguarda la valutazione: il ricorso alla DAD ha depotenziato in modo eclatante le forme di verifica più consolidate, con dei risultati a volte piuttosto buffi: schiere di insegnanti di matematica o di latino e greco disperati perché non in grado a impedire ai ragazzi a casa davanti al computer di ricorrere all’aiutino sul web o a quello del compagno bravo collegato con il cellulare.

Tale fatto dimostra come proprio la valutazione , che nella scuola oggi è prevalentemente sommativa e legata alla prestazione, sia uno degli ambiti nel quale dover al più presto intervenire: se è evidente, infatti, che l’alunno trova tutte le versioni di latino belle e pronte sul web, è chiaro che la soluzione non può essere, la sorveglianza, un sistema di telecamere incrociate che controlli lo studente al lavoro. E’ necessario invece un cambiamento nella prassi valutativa che valorizzi il processo, che stimoli l’autovalutazione e la metacognizione e diventi formativa.

Questo significa che si deve passare dalla versione di Cicerone o Quintiliano, dalla verifica sulle disequazioni a prove autentiche, compiti di realtà che mettano in gioco competenze più complesse e stimolino lo studente a mettersi in gioco. Significa, soprattutto che insegnamento, apprendimento e valutazione non sono momenti diversi , non sono fasi separate, ma si integrano nell’azione didattica.

E ciò impone di sviluppare metodologie innovative centrate sullo studente che ben si coniugano con l’uso di strumenti telematici e ne potenziano l’efficacia.

Una situazione nuova richiede una risposta nuova.

E’ sul fronte della didattica innovativa che l’impulso dato dall’emergenza deve ancora essere fatto valere per ricercare un nuovo setting e rinunciare ad una scuola ancora imperniata sui contenuti disciplinari che da soli non garantiscono apprendimenti significativi. Va piuttosto incrementata la qualità didattico-metodologica e spostato il focus sulle soft skills, sulle competenze relazionali. Prospettiva questa quanto mai necessaria oggi, quando, alla luce di recenti studi sulla qualità dell’insegnamento e degli insegnanti [4],  risulta peraltro di molto ridotto il patrimonio “contenutistico” degli docenti rispetto alla tradizionale scuola “gentiliana”, alla quale comunque continuiamo ad ispirarci: a causa di una mutazione antropologica  spesso i docenti non possono contare su ambienti di provenienza culturalmente troppo stimolanti e il loro background di conoscenze appare meno solido di quello dei colleghi delle precedenti generazioni. Una riqualificazione didattica e una formazione continua appaiono anche per questo assolutamente irrinunciabili. La formazione in entrata e l’aggiornamento in servizio devono essere riqualificate e rinforzate[5] e la soluzione non può essere delegata alle scuole ma deve avere una regia intelligente che allochi in modo più opportuno le risorse che pure in questo momento la scuola ha impiegato.

E’ necessario oggi investire di più sulla formazione in termini di incentivi, di riconoscimenti anche economici da attribuire ai docenti disposti a formarsi. Negli ultimi anni ci sono stati maggiori finanziamenti per la formazione, ma le iniziative sono state sporadiche e non sempre strutturate, e soprattutto sono mancati riconoscimenti ai docenti che scelgono di formarsi e che sono disposti ad innovare. Nelle scuole, nelle quali si è  assistito ad una diffusa femminilizzazione, si devono avere peraltro motivazioni molto forti per strappare le insegnanti  ai lavori di cura che una società come la nostra, ancora fortemente legata alla famiglia, impone alle donne[6].

La formazione in servizio va proposta con modalità nuove in una logica supportiva anche sotto forma di mentoring, tutoring durante la stessa lezione, secondo un’esperienza molto praticata, per esempio, in Finlandia,  in cui il formatore coadiuva l’insegnante durante la stessa ora in classe. Formula questa molto più facilmente spendibile nella organizzazione dei tempi scolastici oggi molto concitati  che spesso mal si conciliano con ulteriori impegni extracurricolari.

E’ poi essenziale che si proceda ad una verifica degli effetti della formazione e ad uno studio serio sulla qualità degli interventi di aggiornamento proposti: manca infatti in Italia un’istituzione tipo la Education Endowment Foundation inglese  (fondazione che finanzia valutazioni di impatto sugli interventi innovativi per il contrasto alla dispersione scolastica nelle scuole più svantaggiate) che monitori e si occupi di verificare gli effetti dei piani di aggiornamento sulle scuole e proceda, per esempio, a creare una grande repository di buone pratiche e di esperienze significative che possano essere diffuse e condivise. Pratica che l’INDIRE ha fatto propria  con le Avanguardie Educative ma che meriterebbe  maggiore attenzione e soprattutto il sostegno di una cultura didattica pronta a rispondere alle richieste di un contesto sempre più impegnativo ed esigente nel quale l’emergenza sanitaria attuale rappresenta solo uno degli elementi di complessità.

[1] Nel 2015, con l’introduzione della Legge 107, cosiddetta Buona scuola, appena il 20% dei docenti aveva seguito un corso di alfabetizzazione digitale, come mostrano R.Locatelli, M.Mincu: The Struggle to Define an Innovative and Inclusive Educational Project in the Context of Covid 19 Pandemic, 30 aprile 2020
[2] G.Roncaglia  Pandemia e scuola in “lI mondo dopo la fine del mondoEditori Laterza 2020
[3] Si veda A.Gavosto  Scuola e capitale umano in “ll mondo dopo la fine del mondo” Editori Laterza 2020
[4] G.Argentin “Gli insegnanti nella scuola italiana” Il Mulino, Bologna 2018
[5] Pur se ritenuta obbligatoria la formazione in servizio non sembra essere regolamentata da norme ben chiare e definite. Dalla nota MIIUR 0025134 del 1° giugno 2017 si ricava che l’ obbligatorietà della formazione non corrisponde ad un numero definito di ore da svolgere. Sono gli stessi , piani di formazione delle singole scuole che stabiliscono penso e qualità degli interventi formativi.
[6] G.Argentin “Gli insegnanti nella scuola italiana” Il Mulino, Bologna 2018, p. 101