ITS e università professionalizzanti. Rischio confusione

La stampa ha riportato con una certa evidenza la notizia che la Legge di bilancio assegna 50 milioni di euro al Fondo nazionale degli ITS (Istituti Tecnici Superiori), ma non ha mancato di rilevare, come ha fatto Corrado Zunino sulla Repubblica (9 novembre) che questi Istituti “Oggi in Italia sono solo 93 per 9mila studenti, mentre in Germania gli iscritti sono 880mila, e 300mila in Francia.  Il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi si è mostrato tuttavia ottimista.

Presentando il ‘Documento della cabina di regia per il coordinamento delle lauree professionalizzanti’ ha detto che i fondi serviranno per attivare nuovi corsi “con particolare riguardo per quelli che offrono competenze abilitanti all’utilizzo degli strumenti avanzati di innovazione tecnologica e legati all’industria 4.0” e ha sottolineato che “negli ultimi cinque anni sono nati 27 nuovi istituti superiori e gli studenti frequentanti (tra i venti e i trentaquattro anni) sono passati da 2.268 a 9mila, mentre i percorsi attivi sono quadruplicati: ora sono 370”, mentre il tasso di occupazione dei diplomati a un anno è salito dal 78% del 2013 all’80%.

Tutto bene dunque? Non diremmo, intanto perché le stesse cifre dimostrano che la crescita del terziario non universitario resta in Italia lentissima, e poi perché ancora una volta si è evitata una scelta drastica ma probabilmente necessaria, e che per vari motivi non è mai stata fatta: quella di separare nettamente i due canali, non prevedendo crediti, passerelle, collaborazioni di alcun tipo. Che invece il citato Documento prevede. Ma la responsabilità in questo caso è dell’ex ministro Giannini, proveniente dal mondo accademico, che prima di lasciare l’incarico di ministro firmò un decreto che autorizzava gli atenei dal 2017-2018 a sperimentare nuove lauree triennali professionalizzanti in aggiunta, ma di fatto in concorrenza con i percorsi degli ITS. Decreto congelato dalla ministra Valeria Fedeli, che ha istituito una cabina di regia (con la Crui e le aziende) per cercare di raccordare le due tipologie di diploma professionalizzante.

È improbabile che ci riesca, come non ci riuscirono ministri come Ruberti e Berlinguer, perché la tendenza dell’università italiana è a cannibalizzare i percorsi terziari diversi da quelli universitari che possano essere avvertiti come concorrenziali ad essi. Ma fino a quando non si deciderà di separare chirurgicamente i due canali della formazione superiore, quello non universitario difficilmente decollerà (purtroppo).