Israel sulla maturità: sfatare il mito dell’oggettività

Nel dibattito sull’esame di Stato conclusivo degli studi secondari stimolato da Tuttoscuola, che ha già registrato nei giorni scorsi l’intervento di Giorgio Allulli, pubblichiamo un contributo di Giorgio Israel, docente di storia della matematica alla Sapienza di Roma.

Rallegriamoci che il governo abbia desistito (speriamo definitivamente…) dall’intenzione di ridurre le commissioni dell’esame di maturità a soli membri interni. La motivazione della protesta – giova ricordarlo – era che in tal modo si rendeva tale esame un’inutile pantomima – tanto valeva attenersi all’esito dello scrutinio finale – e si disattendeva l’esigenza di rigore, di un giudizio esterno che desse maggiore “oggettività” al giudizio finale. Ora, nella discussione su come riformare l’esame di maturità dobbiamo ripartire proprio dall’unico senso ragionevole che può darsi a queste parole: rigore e oggettività. Si aspira a un esame il cui esito sia il più omogeneo possibile, dalle Alpi al Lilibeo, improntato agli stessi criteri. Ma cosa vuol dire questo e come può essere realizzato? Qui abbiamo sentito parlare di “standardizzazione”, di correzione automatica alla maniera dei test Invalsi, che si auspica siano introdotti anche all’esame di maturità, persino di correzione automatica mediante i calcolatori e software avveniristici: il tutto per escludere l’arbitrarietà della soggettività umana, le idiosincrasie dei commissari. In tal modo, non si vede che, richiedendo a gran voce la persistenza di commissioni a composizione mista si è richiesta la presenza di altre soggettività oltre a quelle degli insegnanti interni. Ma se l’unico obbiettivo sensato è il raggiungimento dell’oggettività assoluta nel giudizio, totalmente indipendente dalla soggettività dei singoli, la soppressione pura e semplice delle commissioni e la loro sostituzione con delle tecniche di giudizio standardizzate addirittura per via informatica era perfettamente ragionevole e la battaglia è stata contraddittoria. Perché mai affannarsi a trasportare da una parte all’altra del paese delle “soggettività” se non è questo il modo di garantire l’oggettività e il rigore?

Qui, piaccia o no, si tocca una questione epistemologica e cioè in che senso si possa intendere l’oggettività in un ambito che non è quello delle scienze fisiche o del mondo inanimato, ma è contrassegnato dalla presenza attiva di soggetti autonomi, nella fattispecie insegnanti e studenti. Qui ci si divide tra chi – non soltanto di area umanistica, ma anche e talora soprattutto di area scientifica – ha ben chiari i limiti del trasporto meccanico in quell’ambito dell’idea di oggettività tipica delle scienze fisico-matematiche, e di chi ha scarsa attenzione per il contesto disciplinare e per le modalità del processo di insegnamento e apprendimento e si nutre esclusivamente di pane e statistica. E qui non vale dire «in America si fa così». Certo, come ha scritto lo storico della scienza statunitense Theodore Porter nel suo Trust in Numbers, la tradizione dell’uso del calcolo nel management è nata in Europa, in particolare in Francia, ma «l’uso sistematico dei test QI per classificare gli studenti, i sondaggi di opinione per quantificare gli umori del pubblico, metodologie statistiche sofisticare per valutare il rapporto costo-benefici e le analisi di rischio nelle opere pubbliche – tutto in nome di una oggettività impersonale – sono prodotti distintivi della scienza Americana e della cultura Americana». Tuttavia, due osservazioni vanno fatte: a) non siamo in colonia e non tutto quello che si pensa e si dice negli USA va preso come verità rivelata (strano modo di essere oggettivi); b) se c’è chi negli USA continua imperterrito in quell’andazzo, proprio là sta montando una reazione vivacissima, preoccupata dai disastri che ha prodotto in numerosi campi la mitologia dell’oggettività impersonale, mentre da noi sembra imporsi il più piatto conformismo.

Proviamo allora a mettere alcuni punti fermi.

È indiscutibile che l’attribuzione di un peso non esclusivo ma molto rilevante alle prove scritte sia un modo per affermare l’imparzialità del giudizio; quantomeno secondo il vecchio detto «carta canta e villan dorme»: quel che è stato scritto non si presta a contestazioni e a interpretazioni discutibili da entrambe le parti.

Ciò posto, la valutazione di quanto è stato scritto non è assolutamente riducibile a un giudizio standardizzato impersonale. Se un tema riguarda l’opera di Leopardi, è ridicolo pensare che si possa definire un giudizio standardizzato di tale opera che costituisca un crivello cui deve ciecamente attenersi chi giudica e chi scrive il compito. Il commissario ha inevitabilmente delle idee personali al riguardo, e così lo studente, cui dobbiamo lasciare la facoltà di esporre liberamente quanto ha “maturato” e che può risultare originale e interessante di per sé e anche per la commissione. Altrimenti, con che coraggio deprecare la scuola nozionistica? Il discorso vale per tutte le materie. Vale per una traduzione dal greco o dal (al) latino: non esiste la traduzione standardizzata ottimale e lo studente può esibire capacità differenziate e anche imprevedibili al riguardo. Sono queste le capacità da valutare (a meno che non si chiuda un occhio sulla prassi di scaricare le traduzioni via cellulare dalla rete…) e cui non può rispondere un correttore automatico. E – si badi bene – questo vale anche per un problema di matematica, in cui la determinazione della soluzione esatta – un numero, un’espressione finale – è , in fin dei conti, l’aspetto meno importante del compito: gli aspetti più rilevanti sono come si è giunti alla soluzione (talora la fantasia nel trovare una via originale), il modo con cui si sono descritti i vari passaggi, il rigore e la precisione esplicativa. Tutto questo non può darlo alcuna correzione standardizzata, a meno di non decidere di sottoporre lo studente a prove standardizzate di modesto livello culturale, che non consentono altro che una risposta univoca: questionari, quiz, e analoghi. A tale degrado dovremmo arrivare in nome di una mitologia dell’oggettività impersonale estranea alla sfera dell’umanità?

Proviamo a rovesciare il discorso e a considerare l’esame di maturità – senza prove Invalsi, questionari, quiz e altre miserie – come uno strumento di valutazione del sistema dell’istruzione. In diverse università straniere si procede alla valutazione al seguente modo: l’intero dossier dell’esito di un esame (scritto) viene inviato ad altri docenti di un’altra università, i quali lo esaminano e inviano il loro giudizio che diventa materia di un confronto e di valutazione dell’operato dell’università (e della commissione o del docente) di partenza. Perché non fare qui la stessa cosa? Sottoporre il dossier dei giudizi di una commissione di maturità a un’altra commissione o a commissioni costituite allo scopo? Si aprirà così un processo di confronto che avrà come esito trasparenza e miglioramento della qualità del sistema. La valutazione non può essere altro che intesa come un processo di crescita culturale che mira a far sì che le attività di attività di giudizio – emesse da soggetti, e inevitabilmente soggettive – siano quanto più possibile imparziali ed equanimi: questi sono gli aggettivi da usare al posto di una “oggettività” mutuata in modo meccanico dalla prassi delle scienze fisico-matematiche. È un processo lungo e complesso, ma è l’unico che non svilisce la ricchezza intellettuale – diciamo pure la ricchezza delle conoscenze e delle competenze – del professore e dell’allievo, riducendoli a macchine per somministrare test di verifica e a macchine per ingurgitare nozioni atte a superarli.

Quindi: commissioni miste, compiti scritti quanto più sia possibile (senza per questo escludere una fase di colloquio verbale), valutazione incrociata (di tipo ispettivo) dei giudizi emessi, quantomeno per una quota percentuale significativa delle prove di esame.

                                                                                                                                Giorgio Israel