Il calo iscritti all’università è davvero dovuto ai tagli?

Grido d’allarme e accuse a senso unico per il pesante calo di immatricolati all’università: i 50 mila studenti in meno, secondo diversi commentatori politici e associazioni degli studenti, sono il risultato dei tagli degli ultimi governi alla ricerca e all’università.

A meno di tre settimane dal voto è facile e forse comodo imputare, tout court, la responsabilità di questo preoccupante calo di iscritti esclusivamente alle azioni dell’avversario politico, anziché riflettere su altre cause remote e più complesse.

Anzitutto non va dimenticato che sono quasi 200 mila gli studenti che iniziano il ciclo della scuola secondaria statale e non arrivano al diploma. Si tratta di circa il 30% degli iscritti, che in regioni come la Sardegna raggiunge il 40%. E solo una parte di loro (stimabile in circa 80 mila) rientra in attività di istruzione nella scuola non statale e nella formazione professionale. Quindi c’è un problema a monte riguardo al basso numero di iscritti all’università.

Ma anche tra coloro che al diploma ci arrivano, per quale ragione molti di loro non intendono poi iscriversi all’università? Forse perché dentro gli atenei vi è stato un indebolimento delle strutture o perché talune sedi periferiche minori sono state chiuse?

Questi possono essere fattori concorrenti, ma, secondo noi, le cause sostanziali vanno cercate altrove, cominciando, ad esempio, dalla crisi e dalla spendibilità del titolo, nonché dalla flessione demografica della popolazione.

La crisi. Per molti studenti di famiglie non abbienti le spese universitarie possono diventare insostenibili. Per di più, il tempo trascorso all’università anziché sul lavoro diventa un po’ un lusso, proibito per chi deve cercare di far quadrare ogni mese il bilancio familiare con l’apporto, anche se precario, del figlio diplomato.

Spendibilità del titolo. La depressione del mercato del lavoro non favorisce l’impiego delle alte professionalità e dei laureati.

In molti giovani c’è la convinzione, anche se non pienamente giustificata, che la spendibilità di una laurea non è maggiore di quella di un diploma. Se un lavoro, in tempi di crisi, si può avere sia con un diploma sia con una laurea, perché investire tre o cinque anni per un titolo di studio deprezzato?

Fondate o no queste motivazioni, alla fine un dato emerge: sembrano essere le classi meno abbienti a snobbare l’università.