Tuttoscuola: Non solo statale

Generalizzare la scuola dell’infanzia significa statalizzare nuove sezioni?

La formula della generalizzazione della scuola dell’infanzia, utilizzata da oltre un decennio nelle riforme di centro-sinistra (Berlinguer) e in quelle di centro-destra (Moratti) conserva, a tutt’oggi, molti margini di ambiguità.

Le interrogazioni parlamentari di questi giorni hanno chiesto al ministro Carrozza di uscire in chiaro sul problema per superarne proprio l’ambiguità di definizione e di attuazione. Un’importante occasione da non perdere, anche per prevenire certi estremismi ideologici affiorati nella circostanza del referendum bolognese di un mese fa sul finanziamento comunale alle scuole paritarie.

Generalizzare la scuola dell’infanzia non significa favorire la scolarizzazione cioè la domanda di servizio (che pur ne trarrebbe vantaggio), bensì aiutare l’offerta a crescere e a distribuirsi razionalmente sul territorio secondo principi di sussidiarietà.

Per fare questo, secondo tesi radicali di sinistra, la strada è una sola: espandere la scuola dell’infanzia statale. Punto.

Non si può dimenticare, però, che nel settore dell’infanzia il gestore del servizio non è soltanto lo Stato e che la legge 62/2000 sulla parità, più qui che in altri settori scolastici, ha sancito l’integrazione del sistema, affermandone la natura pubblica di servizio.

Interpretare l’obiettivo della generalizzazione della scuola dell’infanzia secondo il canale unico della statalizzazione non corrisponde, secondo noi, allo spirito di quella legge e non considera nemmeno la realtà attuale di diffusione del servizio.

In questo anno scolastico che si sta concludendo, infatti, i bambini che frequentano scuole statali dell’infanzia costituiscono il 61% dell’intera popolazione iscritta; il restante 39% si trova in scuole paritarie (il 9% in scuole comunali, il 30% in scuole a gestione laica o religiosa).

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