Il diario scolastico specchio di umanità e responsabilità
Si dice che i ragazzi non sappiano più scrivere senza pc o cellulare. Noi, invece, si? Da bambina, un Natale, fui ricoverata al San Matteo di Pavia. La mia calligrafia – parola che, appunto, significa “scrivere con bellezza” – all’epoca era tale che le infermiere mi incaricarono di scrivere i biglietti di auguri per tutti i medici della pediatria. Oggi, invece, ho difficoltà a capire i miei stessi segni, quando scrivo a penna. E’un’abilità che avevo e che ho perso, dopo decenni di computer. Una grave perdita, aggiungerei.
La mia non è certo una esperienza isolata. Ho cercato di recuperare nei mesi di lavoro a Mosca: per cominciare a capire qualcosa di cirillico, è necessario prendere carta e penna. Non lo facevo da anni. Dal mio punto di vista, risulta quindi davvero difficile comprendere le ostilità che hanno accolto il ritorno del diario a scuola. Ho letto commenti strani, che parlano di nostalgia del passato. E’ esattamente il contrario: il diario a scuola è un rilancio verso il futuro, è un “andare oltre” le abilità perse ma è anche un “andare oltre” nelle emozioni.
Provate a riprendere in mano il vostro vecchio diario, quell’oggetto ora dimenticato che è sempre stato il nostro compagno fidato di viaggio per tutti gli anni di scuola. Io l’ho fatto in questi giorni, mentre imperversava la polemica del tutto estiva contro la reintroduzione del diario, voluta dal Ministro Valditara per responsabilizzare gli alunni nella gestione dei compiti, in modo tale che non siano più costretti ad entrare nel RE, con le password dei genitori, per sapere quali pagine di storia o di matematica studiare.
Per prima cosa, ho scoperto di aver buttato via i quaderni ma di aver conservato tutti i diari del liceo, proprio per il loro valore affettivo: sono pezzi di vita. Ad una certa età scrivere è più facile che parlare: tra un compito e l’altro, tra una nota ed una giustificazione, spuntava, semplice, ermetica, una frase che racchiudeva un mondo di cose accadute, intellegibile solo a me e a chi con me aveva condiviso il tempo e il luogo dell’episodio. Io poi, esagerando, le scrivevo in corsivo con i caratteri greci, una sorta di lucchetto.
Come seconda cosa, ho scoperto che il registro elettronico è senza dubbio uno strumento utilissimo di comunicazione tra scuola e famiglia: in diretta (quando i docenti lo compilano all’istante e non dopo settimane), i genitori possono vedere i risultati scolastici dei figli, le presenze, le richieste della scuola. E infatti nessuno al Ministero ha mai pensato di toglierlo. Ma ho scoperto che il diario è molto più di questo e va assolutamente affiancato al RE: ritrovarlo a distanza di anni è come assistere al film della propria vita, con le scene sottolineate da una certa abilità comico artistica di alcuni compagni di classe. Dalle loro calligrafie, trenta anni dopo, escono ancora emozioni. Chissà se, sparsi chissà dove nel mondo, hanno perso anche loro per strada la propria calligrafia. Sarebbe bello ritrovarla, tutti insieme.
La terza più che una scoperta è un ricordo, ma di cui solo ora sono consapevole: il diario entrava nelle nostre vite già in estate. Era un rito di fine agosto, almeno per noi ragazze, girare per librerie alla scoperta delle novità per scegliere, prezzo permettendo, quello più affine alla nostra personalità. E infatti il diario ci corrispondeva, ci assomigliava, da nuovo, ma ancora più da vecchio, era uno specchio di noi stessi. “Ho comprato il diario” significava “pronti via” per il nuovo anno, ma anche “è finita l’estate”.
Noi ragazze avevamo un discorso affettivo con il diario scolastico, lo riempivamo all’inverosimile di vita vissuta, di sogni, speranze, canzoni che amavamo, frasi che avevamo scoperto in qualche libro e nelle quali intravedevamo qualche principio per orientarci nella vita. Pagine o caricature che mai avremmo fatto leggere ai nostri professori o genitori: era il muro che separava, all’epoca, la scuola dalle emozioni. In quegli anni, almeno per la mia esperienza, la scuola era il luogo di trasmissione delle conoscenze ma non ci era concesso misurarci con le emozioni, la nostra capacità di amarci e di amare, di stimarci e di stimare, di fare i conti con la vita, la morte, le malattie: i sentimenti erano relegati ai corridoi, ai bagni e, appunto, al diario, mentre in aula si comunicava solo sul razionale. Oggi non è più cosi, a scuola si parla di tutto, si entra nei sentimenti e nel sentire, quando ci sono in cattedra bravi docenti. Immaginate, facendo un salto nel tempo, se qualcuno avesse pubblicato il vostro diario via internet. Brivido vero? Con i post sui social scriviamo ciò che vogliamo sia letto, nel diario di scuola invece scrivevamo per noi stessi.
Tra le frasi scritte dai miei compagni ne trovo una di Arnoldo. Passavamo tutti i pomeriggi al telefono (fisso, non c’erano i cellulari). Io con il dizionario di greco, lui con quello di latino, all’altro capo del filo. Per ore ed ore cercavamo di ricostruire come un puzzle, per prove ed errori ma anche tra le risate e le pause caffè, il senso delle versioni, con le lamentele dei rispettivi genitori come sottofondo: il telefono non poteva essere sempre occupato da noi che studiavamo! All’epoca nessuno poteva immaginare che Arnoldo se lo sarebbe portato via l’asfalto, ancora giovane studente di medicina, che i suoi sogni sarebbero finiti sotto un camion, vittime di strada come lui. Con i soldi del processo la madre, Aurelia, ha messo in piedi una associazione per aiutare i giovani, come eravamo noi all’epoca. A me ha lasciato in eredità i suoi libri di cinema, l’unica finestra che avevamo sul mondo, dato che vivevamo senza internet ed in un paese senza cinema né teatri (anche ora, ma almeno c’è il web). Tutto questo racconta la piccola frase scritta di suo pugno sul mio diario, tanti anni fa.
Devo dire che sono contenta che ci sia stata una polemica sui diari di scuola. Altrimenti non avrei rispolverato i miei. E’ nostalgia, come qualcuno ha detto nel criticare, immotivatamente, il ritorno del diario? No, è scienza. Dalla Norvegia a Tokyo passando per gli Stati Uniti è ormai assodato che la penna traghetta le parole nella nostra memoria a lungo termine, tanto da farle riesplodere nell’anima anche trent’anni dopo, quando te le ritrovi davanti come accaduto ora a me con la frase di Arnoldo. E vale in tutto il mondo perché il diario di scuola è legato alla nostra umanità, non alla nostra nazionalità. Lo ha dimostrato, nell’Università di Trondheim, la ricercatrice Audrey van der Meer: il grado di connettività cerebrale che si raggiunge scrivendo a mano è sensibilmente più elevato rispetto a quello di chi scrive al computer. L’analisi, condotta attraverso 256 sensori, spiega gli elettroencefalogrammi degli studenti testati: è proprio il movimento delle mani durante la creazione delle lettere a favorire una più elevata connettività cerebrale (digitare un semplice tasto è un’attività meno stimolante per le aree del cervello). Forse non è un caso che se si impara a leggere con il tablet spesso si incontrano difficoltà con le lettere speculari, ad esempio la “b” e la “d”: come si può imparare a scrivere senza sperimentare il proprio corpo nella produzione di segni grafici?
Mi conforta vedere che la coscienza si stia risvegliando in tutto il mondo. Dalle colonne del New York Times, la scrittrice Maria Konnikova combatte contro l’eliminazione della scrittura a mano, decisa in alcuni Stati Usa in quanto ritenuta arcaica. Dalla sua, attraverso studi condotti con i sensori e la risonanza magnetica, anche gli psicologi Stanislas Dehaene, Karin James (dal 2012), Virginia Berninger e persino Paul Bloom che, inizialmente scettico, ha poi concluso come scrivere con carta e penna aiuta anche a pensare meglio. E anche all’Università di Tokyo, esaminando il flusso sanguigno cerebrale, si è arrivati alla stessa posizione, pubblicata sulla rivista Frontiers in Behavioral Neuroscience: chi ha scritto su un diario cartaceo ha impiegato meno tempo per prendere appunti (11 minuti contro i 16 impiegati da chi usava la tecnologia) ed ha registrato una maggiore attività cerebrale nelle aree associate al linguaggio, alla visualizzazione immaginaria e all’ippocampo, un’area che svolge un ruolo chiave nella formazione della memoria e nella navigazione spaziale. Due campi nei quali siamo tutti sempre più carenti.
Impugnare una penna è entrare dentro noi stessi. Prendere appunti a penna aiuta a concentrarsi meglio perché significa catturare i concetti chiave e riformularli con parole proprie mentre li assimiliamo, è quindi un modo per imparare più velocemente. Quindi, perché polemizzare contro il diario cartaceo? Perché i bambini non potranno più dire in classe “non ho fatto i compiti perché mamma non mi ha dato la password del RE?”, oppure “perché non c’era linea”? Scrivere sul diario quali compiti svolgere e farli da soli a casa dovrebbe essere normalissimo, non fonte di polemica.
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