DaD: un fantasma da esorcizzare

Nell’ultimo anno con crescendo rossiniano, culminato nella pubblicazione dei dati Invalsi sulla caduta dei livelli di apprendimento registrata nelle prove svoltesi nella primavera del 2021, posti a confronto con quelli dell’era pre-Covid, ha preso corpo una sorta di fatwa, di condanna senza appello nei confronti della DaD, considerata a furor di popolo (dei social), e di una stampa sempre in cerca di titoli forti e spiegazioni semplici, la responsabile del “disastro antropologico” della scuola italiana, come disse Chiara Saraceno.

Ora, se è facilmente dimostrabile (lo si è fatto in tutto il mondo, in genere tramite test) che la sospensione della didattica in presenza ha provocato mediamente ritardi assai rilevanti nei tempi e nei livelli di apprendimento, non si è forse adeguatamente messo in luce il fatto che la DaD (salvo dove non è stato materialmente possibile realizzarla) ha consentito il mantenimento della relazione educativa tra docenti e alunni, ha comunque permesso l’acquisizione di una certa quantità di contenuti e di obiettivi, e dove ha funzionato bene, a quanto risulta (l’Indire ha pubblicizzato alcune esperienze significative, peccato che manchino rilevazioni sistematiche ad hoc), ha perfino migliorato le prestazioni degli alunni. Non si è forse riflettuto abbastanza sul fatto che in assenza della DaD le conseguenze del lockdown sarebbero state ben più gravi, soprattutto a carico degli alunni più fragili e di quelli appartenenti a famiglie di più modesta condizione economica e socioculturale.

Nel dossier “Classi pollaio, ora basta!” scriviamo: “Chissà se a provocare il crollo negli apprendimenti certificato dall’Invalsi abbiano contribuito di più le ore fatte in dad da docenti in larga parte impreparati a gestirla (è mancato un grande, capillare e strutturato piano di formazione coordinato dal Ministero dell’istruzione) o le tantissime ore proprio non erogate rispetto al piano di studi, né in presenza né a distanza, peraltro in maniera diseguale tra scuola e scuola (e tendenzialmente crescente scendendo verso il basso geograficamente e per grado di scuola), di cui ben poco si è parlato (Tuttoscuola l’ha chiamata la scuola diminuita)”.

Dietro il rifiuto della DaD si nasconde in realtà il rifiuto della tecnologia, condiviso da alcuni importanti esponenti dell’élite culturale del Paese con motivazioni a volte – per dirla in termini semplici ma non arbitrari – di una sinistra neo-utopica (la lotta contro le big-tech multinazionali, la mercificazione/massificazione dei processi culturali, la dis-umanizzazione della relazione didattica) e a volte di una destra neo-distopica (la difesa dell’identità e del patrimonio culturale nazionale dagli assalti di un incombente potere tecnocratico transnazionale e cosmopolitico).

Certo, l’esperienza dimostra che la DaD non può funzionare come alternativa globale alla didattica in presenza (non ci riesce neanche negli USA dove l’homeschooling, già diffuso, è cresciuto durante il lockdown, ma non supera il 5% della popolazione scolastica), ma che funziona benissimo in una didattica mista, hybrid, cioè se inserita in un piano di uso corretto e integrato delle tecnologie online e offline. Se la DaD è un fantasma, va esorcizzato. 

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