Cancel culture. Una deriva pericolosa

È perfino difficile rendere in un italiano accettabile l’espressione angloamericana “cancel culture” perché la traduzione letterale – cultura della cancellazione – sembra un ossimoro, vista la contraddittorietà dei termini: non si comprende quale base culturale possa avere l’operazione di cancellazione di fatti, persone o immagini che hanno costellato la storia delle nazioni.

Eppure, in vari modi, questa tendenza alla censura e all’ostracismo si è rafforzata negli ultimi anni, portando alle estreme conseguenze la logica del politically correct, altra locuzione angloamericana con la quale si è contrassegnata e giustificata l’eliminazione di espressioni ritenute offensive per qualcuno in materie ad alta sensibilità sociale, come le questioni di sesso, razza, condizione personale, sostituendole con altre ritenute meno oltraggiose e più neutrali.

Negli USA si sono verificati numerosi episodi di cancellazione di simboli di un passato considerato riprovevole, come la rimozione o distruzione di statue di personaggi storici percepiti oggi come negativi, come Cristoforo Colombo, George Washington, Thomas Jefferson e persino Abraham Lincoln, colpevoli di aver esportato in America gli aspetti peggiori del colonialismo europeo: il suprematismo bianco, lo schiavismo, la visione imperialista verso le popolazioni indigene come gli indiani d’America, massacrati (anche) da Lincoln.

Il distretto scolastico di San Francisco ha così proposto a grande maggioranza di rinominare ben 44 scuole intitolate ai citati personaggi e ad altre figure storiche. I costi per il Comune sarebbero esorbitanti: occorre cambiare segnaletica, divise, targhe, quadri, statue e quant’altro ricordi le personalità da “cancellare”, e poi rivedere i programmi e i libri di testo, a cominciare da quelli di storia. E coinvolgere i docenti, molti dei quali non sono affatto d’accordo su una questione talmente divisiva.

Probabilmente la proposta non avrà seguito, anche perché il dibattito da essa suscitato ha visto scendere in campo autorevoli giornali, riviste specializzate ed accademici di orientamento liberal ma anche – o forse proprio per questo – critici nei confronti della furiosa deriva massimalista della cancel culture, un cui filone pretende di cancellare anche la distinzione biologica tra i sessi, da sostituire con l’indistinzione psicologica del “genere”, minacciando chi non condivide questo orientamento. Ne sono rimaste vittime docenti universitarie femministe, accusate di essere transfobiche (l’ultimo caso, di qualche giorno fa, è quello di Kathleen Stock, dell’università del Sussex) e anche la celebre creatrice di Harry Potter, J.K. Rowling.

La scuola italiana, per fortuna, sembra al riparo dalle riletture radicali del passato che emergono nel mondo anglosassone e soprattutto negli USA, dove il quadriennio dell’amministrazione Trump ha esasperato la questione razziale finendo per favorire le componenti più intransigenti dei movimenti di lotta per i diritti delle minoranze come Black Lives Matter.

Certo, non mancano anche nel nostro Paese reinterpretazioni del passato da parte di accademici e intellettuali (basti pensare alla rivisitazione del periodo fascista da parte dello storico Renzo De Felice o a quella della Resistenza fatta da Giampaolo Pansa), ma attorno a queste operazioni culturali non si sono aggregati movimenti, e la loro ricaduta sulla scuola (aggiornamento dei libri di testo, influenza di tali lavori nella prassi didattica dei docenti) è stata e resta modesta.

Anche la denuncia sessantottina (e di don Milani) del carattere classista del sistema educativo italiano, dopo la breve stagione della contestazione nelle scuole da parte di movimenti come Lotta continua e Avanguardia operaia, che ebbero un certo seguito tra gli studenti e anche in un esiguo numero di insegnanti, fu riassorbita dalla stagione della “partecipazione” avviata dai Decreti delegati del ministro Malfatti tra il 1973 e il 1978, e dalla tendenza della gran parte dei docenti a non modificare i propri metodi di insegnamento, assecondata in ciò dal conservatorismo inerziale dell’apparato amministrativo ministeriale.

Inoltre, a differenza di quanto accade in un sistema decentrato e pluralistico come quello statunitense, dove i programmi scolastici di storia e di civic education sono in notevole misura stabiliti a livello locale, in Italia (e in buona parte d’Europa), esistono programmi e linee guida di carattere nazionale che non lasciano spazio ad operazioni di censura o di rovesciamento radicale dell’interpretazione dei fatti storici. Naturalmente occorrerebbe che tali insegnamenti fossero resi vivi e coinvolgenti, cioè incisivi sotto il profilo emotivo e della capacità di formazione del pensiero critico. I grandi eventi storici dovrebbero essere ri-vissuti, mentre l’educazione civica, che ha il suo punto di riferimento stabile nella Costituzione della Repubblica, dovrebbe a sua volta essere agita più che studiata.

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