In ascolto di Barbiana. Dialogo con Nevio Santini, alunno di don Milani

di Rosanna Consolo

I banchi erano il tavolo dell’aula d’inverno e dell’aula d’estate, i materiali per l’apprendimento erano quelli autoprodotti, la palestra il bosco e la piscina scavata con i genitori e i ragazzi per “togliergli la paura dell’acqua”, la campanella era la luce del giorno e della notte e suonava scandita dallo scorrere intelligente e pre-ordinato delle stagioni. A Barbiana la scuola aveva la porta aperta sul mondo con la lettura dei quotidiani: “Ogni dì, dall’una alle due si leggeva Il Giorno”, ed era sotto la protezione del “Santo Scolaro”, un mosaico di pezzi di vetro colorato fatto durante disegno, con il volto coperto dal libro in modo che tutti ci si riconoscessero. Era “una scuola laica, ma le cose primarie che insegnava erano il Vangelo e la Costituzione. Poi avevamo come personaggi chiave Martin Luther King, Ghandi e Socrate. Riferimenti di persone rivoluzionarie ma senza armi”. Gli intarsi virgolettati sono di Nevio Santini, uno dei “Ragazzi di don Milani”, allievo a Barbiana ad inizio degli anni ’60, incontrato nel “Centro Studi don Milani” durante una visita con docenti e studenti che all’Università Lumsa di Roma condividono l’esperienza del “Service Learning” a Maggio scorso.

Un dialogo capace di affrescare i quadri delle giornate che nella scuola di don Lorenzo Milani si rincorrevano mai uguali. Con l’intelligenza dei “grandi” e la sapienza dei “piccoli”, il priore di Barbiana – in verità già dalla sua esperienza a Calenzano – ha tracciato una strada, un solco tuttora camminato solo da chi porta in cuore il desiderio di conoscere e capire, di porre i propri passi su quei passi pagando il pegno di una fatica del cammino  e della strada “in salita” e non solo metaforicamente; il pegno di una fatica di chi vuole cercare di fare di quell’invito “I care” il quotidiano incipit della propria strada.

Al Centro Studi don Milani e a Barbiana ancora oggi volontariamente e per senso civico ex allievi sanno quotidianamente vivere il senso di quanto coltivato insieme con il loro priore, il senso di “I care” che campeggia su una porta interna dell’aula d’inverno. Nevio Santini con generosità parla dei suoi anni a Barbiana e del ritorno dopo l’esperienza all’estero: “Era il traguardo della scuola di Barbiana perché arrivati in fondo a tre anni di scuola lassù, bisogna che noi si fosse già pronti per affrontare il mondo perché avevamo da imparare tante cose da tutti.

Lui ci diceva: “Non c’è mai limite di imparare. Si deve imparare sempre e da tutti”. E continua: “A 17 anni non avevo più paura di nulla, mi sentivo di essere diventato come lui ci classificava: ‘un giovane sovrano’. Perché Barbiana era una scuola di vita, bisognava imparare tutto di quel che poi ci poteva servire nella vita: non si stava tanto a studiare geografia, matematica, storia quanto l’insegnamento di vita  portandoci a conoscere tutti i giorni le necessità e le opportunità che avevamo davanti per immetterci in questa vita nuova: ecco perché ci è servito il suo insegnamento”.

Nevio è un torrente di contenuti e riflessioni che affonda interamente nei suoi anni a Barbiana: “Questa apertura che ho con gli altri la devo a don Milani, è frutto della sua scuola: mi ha fatto sbocciare. Tutto quello che vedete nella scuola è materiale prodotto da noi dietro alla sua spinta di insegnarci, di farci capire: si studiava e si lavorava sullo studio che si faceva. Se si approfondiva un tema, bisognava portarlo su carta: cioè vale a dire lavorare insieme e capire fino in fondo che tema si stesse studiando. I ragazzi più grandi facevano la scuola ai più piccoli; lui ci insegnava l’italiano a tutti. Si imparava insieme. Quando il ragazzo non riusciva a spiegare una cosa: ‘Priore, può venire qua?’. Si metteva lì e iniziava. Ci ha dato la cassetta degli arnesi: c’era tutto quel che si poteva apprendere per sviluppare le nostre conoscenze per un domani, avere una vita più aperta, una vita non come la immaginavamo allora, da contadini, operai e figli d’operai. Quando si arrivò lassù in tre anni lui ci ha tolto la paura e la timidezza perché ci ha dato la parola. Perché la parola ci mancava”.

“Quando il mio babbo mi portò a Barbiana – continua Nevio – chiese a Don Milani: ‘Cosa mi devo procurare per Nevio?’ Eravamo lui, il mio babbo ed io. ‘Lei a suo figlio gli deve comprare una tuta di gomma, un paio di stivali, una lampadina e la borsa con il tegamino perché la scuola qui va dalle 8 della mattina alle 8 di sera e Nevio mangia qui. Per venire a casa ha bisogno della pila per vedere come va. Per venire su verrà a piedi come tutti”. A guardarli ora, potremmo prenderli non solo come strumenti per il cammino sui sentieri, ma come strumenti di competenza del cammino: far luce per capire meglio e vedere dove si va, avere quanto occorre per camminare in sicurezza e per proteggersi dalle intemperie di ogni giorno. Anche in questo un altro insegnamento della scuola di Barbiana. “Bisognava stare attenti e, se non si capiva qualcosa, alzare la mano. Se don Milani vedeva che non avevamo capito ti diceva: ‘Nevio, dimmi quello che ho detto’; e poi: ‘Porto Nevio, Nello, Franco al pari di tutti e poi riparto’ diceva. Ci faceva sentire importanti perché diceva che gli ultimi devono essere al pari dei primi. Ecco perché si andava lì, perché ci si sentiva importanti e quando andavamo via eravamo tutti soddisfatti”.